Da piccolo io ero un bambino stranissimo.
Mi perdevo, mi perdevo in continuazione.
Stavo lì, disteso sul pavimento della mia cameretta vuota,
e in bocca tenevo una fetta di limone.
Mi piaceva l’acido. Mi strizzava tutto.
Nella stanza vicina spesso mia madre piangeva.
Io leggevo i tre moschettieri.
I problemi cominciavano quando uscivo in strada.
Come era difficile il mondo là fuori.
Come era difficile stare coi compagni di classe.
Si divertivano, loro.
Facevano le feste con gli amici, loro.
Avevano i vestiti sempre a posto loro.
Invece per me già abbottonarmi giusto il cappotto
era un problema.
Il nodo da fare alle stringhe delle scarpe
mi diede per anni problemi.
E poi la prima scoperta terribile.
Ridevano di me.
Prima di nascosto.
Poi più evidente.
Alla fine in faccia.
Mi prendevano le robe dal banco
e me le nascondevano.
Io facevo fatica a trovare la voce.
Se dicevo “ridatemele” loro ridevano di più.
Scrivevo bene.
La maestra mi guardava
come una bestiolina strana.
Cosa avrà in quella testa.
Tornavo a casa e ogni giorno perdevo qualcosa.
Mio padre: “dove hai dimenticato la penna?”
“Ma è possibile dimenticare lo zainetto?”
Come si fa a perdere le lenti a contatto?
Comprate due giorni fa, capisci!!!
Io leggevo i tre moschettieri.
Io leggevo Peter Pan.
Io leggevo degli Orsi in Sicilia.
Io leggevo storie di cavalli coraggiosi nel Far West..
E mi perdevo.
E succhiavo il limone.
E mia madre piangeva di là nella stanza.
E me ne andavo con la testa per i fatti miei.
Mio padre urlava :
“cosa hai nella testa?”.
E quando mi son fatto rubare la bicicletta.
“Testa vuota”.
E quando ho allagato la cucina:
“testa di sabbia”.
E quando ho lasciato il fornello acceso.
“Testa di segatura”.
Mia madre piangeva.
“Sei come tua madre” diceva lui.
Teste vuote.
Correvo nella mia stanza.
Leggevo i tre moschettieri.
Quel D’Artagnan poi era un leone.
Mio padre si scocciò.
Mi disse che non mi voleva vedere sdraiato per terra.
Mi disse che non mi voleva vedere chiuso in stanza.
Mi disse che mi voleva vedere coi ragazzi della mia età.
La casa divenne tutta nemica.
Tranne un posto.
Un posto magico.
Il bagno.
Mi dicevano che mi lavavo poco.
Soprattutto i piedi.
Quando mi videro andare in bagno così frequentemente
si stupirono.
Mi chiudevo dentro.
Riempivo la vasca.
Ci buttavo dentro tanta schiuma da lavare tutta la classe,
maestra compresa.
Tiravo fuori un libro.
Sentivo l’acqua scorrere calda.
Mi perdevo, mi riperdevo..
Sceglievo  i momenti in cui mia mamma dormiva.
E lui era in ufficio.
Mia mamma una volta si svegliò.
Doveva fare le sue cose.
“Perché ti chiudi a chiave?”.
“Perché ho paura degli spifferi”, le dissi”.
Fece sì con la testa.
Tutto normale per lei.
Con lei non c’erano problemi.
I problemi cominciavano fuori.
Quando ridevano.
Tutta la gioia mi passava.
Mi sentivo un sacco vuoto.
Un pupazzo imbecille.
Una volta, in campagna d’estate,
vidi uno spaventapasseri.
Col cappello e la paglia nella testa.
Così mi sentivo.
Un vecchio di nove anni.
Un bambino che porta gli occhiali
perché tanto le lenti a contatto le perde.
Uno che non si invita alle feste.
Uno che va bene solo in Italiano.
I numeri mi confondevano.
La storia mi annoiava.
In Educazione fisica ero la favola.
Vedevo la pertica davanti a me.
Mi lanciavo come un pirata all’attacco della nave nemica.
Dopo il primo salto, inesorabilmente,
i piedi cominciavano a cedere.
Facevo forza disperato con le mani.
Rimanevo lì, appeso come un salame,
a mezz’aria.
Non riuscivo a salire.
Non mi rassegnavo a scendere.
Finchè il maestro mi prendeva
e mi depositava a terra,
come una sacco di patate vuoto.
Voi direte uno sfigato.
Voi direte uno così meglio perderlo che trovarlo.
Voi direte “ è la favola di tutto il quartiere”.
Bene, me lo dicevo anch’io.
Mi odiavo.
Non  mi sopportavo.
In bagno leggevo ancora.
Anche cose difficili.
La storia della balena assassina.
La storia del vecchio che cacciava gli squali.
I Promessi Sposi no.
Mi facevano schifo.
Ma ogni tanto tornavo a D’Artagnan.
Lo nascondevo un po’ quel libro.
Troppo per bambini.
Anche se Milady era niente male.
Me la immaginavo con la faccia di Patty Pravo.
Grande Patty Pravo.
Un leone quel D’Artagnan.
E perché io no?
Perché io no un leone.
Mi piaceva Bennato.
Lo confesso: mi piaceva Bennato.
Lo avevo visto in televisione.
Aveva la chitarra, l’armonica e il tamburello dietro la schiena.
Mi son detto: ma chi è questo stravolto.
Fortissimo.
Non ha paura di nessuno.
Un leone quel Bennato.
Anche la testa una criniera.
Sono andato dal parrucchiere
e gli ho chiesto un testa alla Bennato.
Sono uscito Branduardi.
Preso per il culo per una settimana.
Lasciamo perdere.
Un leone quel Bennato.
Perché io no.
Perché io no?
Ho imparato tutte le frasi giuste.
Ho imparato a dire “che cazzo vuoi”.
Ho imparato a dire “Mollami!”.
Ho imparato a dire “Vogliamo vedere”.
Ho imparato a dare il cinque.
Studiavo da leone.
Un giorno ho detto a mio padre
“Senti tipo, calmino”.
E’ rimasto con la mascella spalancata per due minuti.
Tra me e me canticchiavo
“Smoke in the water”.
Mi sono comprato una polsiera heavy metal.
Una volta grattandomi la testa con quella
mi sono scorticato.
Studiavo da Leone.
Mi sono presentato al campo di calcio.
Di solito quando arrivavo io
le squadre erano sempre dispari.
Qualcuno doveva rimanere fuori.
Io.
Mi sono imposto.
Ho detto che cazzo vuoi e anche
vogliamo vedere.
Mi hanno messo a giocare da libero
che lì facevo meno danni.
Quando il pallone è arrivato tra i miei piedi
lì c’e stato il panico.
Paura di passare la palla.
E se sbagliavo il passaggio.
Paura di partire in dribbling.
Non lo sapevo fare.
Paura di guardarmi intorno
per capire dove erano i compagni.
Se perdevo troppo tempo poi
mi pigliavano per il culo.
Ho tentato un rinvio di potenza.
Ho sbucciato la palla.
E’ finita in fallo laterale.
Mi sono sentito una merda.
Mi sono sentito male.
Mi son sentito un leone che si vergognava.
Un leone vigliacco.
In televisione vedevo dei falli bellissimi.
Falli da leone.
Un attaccante correva libero verso la porta.
Il difensore lo falciava spietatamente alle spalle.
E salvava il risultato.
Alla fine si parlava di “gioco maschio”.
Cominciai a ripetermi:
anch’io!
In una partita,
durante un’azione qualsiasi a trenta metri dalla porta,
vedo un avversario scattare.
Mi ripeto anch’io.
Gli corro dietro.
Mi ripeto: lo devo fare.
Gli metto un piede davanti al suo.
Lui cade.
Si fa male.
Silenzio in campo.
Gli avversari mi guardano attoniti.
Un mio compagno si avvicina
e mi dice ”Ma sei scemo?”
Mi sono sentito una merda.
Mi sono sentito male.
Mi sono sentito un leone pieno di vergogna.
Tornai al bagno.
Tornai alle letture.
Per consolarmi mi dicevo
che ero un solitario infelice.
Incompreso.
Sensibile ma incompreso.
Sognavo Patty Pravo
che si innamorava della mia sensibilità.
E un giorno confessava
di amarmi tantissimo.
Sognavo che io, al posto di D’Artagnan,
facevo impazzire d’amore Milady.
Sognavo di uccidere la balena bianca,
che però morivo,
e che tutti i marinai piangevano disperatamente.

Ma il tempo passava, Patty Pravo non arrivava
E D’Artagnan cominciava a stufarmi.
Non ero un buon spadaccino,
non sapevo affondare i colpi,
non avevo un gran coraggio,
non ero il re della foresta.
Ritornavo a sentirmi un sacco vuoto.
Vuoto di speranze. Pieno solo di fantasie.
In edicola cominciai a vedere strani libri.
Libri con le figure.
Fumetti.
Piene di avventure meravigliose.
Di soldati invincibili.
Avevano armature straordinarie.
Quasi non avevano volto.
Macchine perfette.
Soldati di ferro.
Nella vasca mi portavo loro adesso.
Potenza pura.
Forza dell’organizzazione.
Invincibili eroi.
Mi perdevo di nuovo.
Mia madre piangeva sempre.
Ma non la ascoltavo più.
Mio padre mi diceva: fuori le palle.
Opponevo un ghigno sprezzante.
Nessuno sapeva della mia vita.
Per alcuni mesi non volli sapere della vita di nessuno.
Bagno dopo bagno mi rafforzavo.
Capivo la mia vocazione.
Un capo.
Ecco quello che avrei potuto essere.
Un organizzatore di imprese.
Un organizzatore di uomini.
Non avrei più sentito il sacco vuoto dentro di me.
Difeso dalla disciplina
Avrei trovato il coraggio dei miei atti.
Partii dall’oratorio.
Al prete ero sempre piaciuto.
Quel ragazzino così silenzioso e così sensibile.
Diventai il suo braccio destro per organizzare i coetanei.
Organizzavo tutto
Tornei di ping pong con regole e premi.
Io non partecipavo.
Mai più rischiare di perdere.
Gite domenicali in montagna.
Telefonavo io al conducente dei pullman.
Feste e incontri. Decidevo io il programma.
Ero ben protetto.
Nessuno osava dirmi niente in faccia.
Dietro a me qualcuno rideva.
Che ridesse.
Scrivevo sempre l’articolo che apriva il giornaletto.
Da sempre scrivevo bene.
Adesso avevo anche imparato a parlare bene.
A scuola nelle interrogazioni se sapevo sapevo.
Se non sapevo fingevo di sapere.
Giri di parole meravigliose.
I professori abboccavano.
Cominciai a stilare le liste dei buoni e dei cattivi.
Il prete era contento.
Vedeva che tutto funzionava.
Il prete non era contento.
Vedeva che allegria intorno a me ce n’era poca.
Un giorno mi fece uno strano discorso sulla superbia.
Sulla presunzione.
Sul pensare di non aver nulla da imparare.
Mi chiese se non volevo prendermi
Un po’ di tempo libero per me.
Solo accenni.
Ma all’improvviso sentii che il vuoto di nuovo
m scoppiava nella testa.
Avrei voluto urlare, fare una scenata.
La rabbia tutta bloccata dentro.
.Di nuovo la paura.
Me ne andai di corsa dall’oratorio.
Non esisteva solo quello in quartiere.
C’era il circolo giovanile.
In poco tempo diventai responsabile di questo e di quello.
Le cose che si organizzavano erano pressappoco le stesse.
Gite, feste, tornei di ping pong.
E soprattutto: motivare gli altri.
Dargli gli ideali.
Difendere lo spirito del gruppo.
Rappresentarli davanti al mondo.
Andavo a parlare alle riunioni degli adulti.
Tutti stupiti dalla proprietà di linguaggio.
E dalla profondità di pensieri.
Vivevo i miei piccoli momenti di gloria.
Lavoravo come un negro.
La fatica per me non esisteva.
Ero capace di fare tre riunioni al giorno.
Gli altri ragazzi mi seguivano.
Io gli volevo bene.
Ma non ero mai contento di loro.
Se vedevo arrivare uno, tutto svaccato, tutto dubbioso,
che mi sembrava un sacco vuoto,
uno spaventapasseri rinscimunito,
mi arrabbiavo moltissimo.
Lo facevo sentire indegno.
Convinto di essere nel giusto.
Convinto di fare il suo bene.
Se arriva una ragazza con le guance all’ingiù,
in preda a terribile sofferenze d’amore,
la guardavo come si guarda a una scema,
che non ha ancora capito niente.
La prendevo in giro,
le toglievo la pelle di dosso.
Adesso me la potevo ridere di D’Artagnan,
che in fondo era rimasto sempre
un povero moschettiere senza arte né parte,
Bennato lo lasciavo cantare a quelli della compagnia,
con le chitarre, che così si divertivano.
Io lo trovavo superficiale.
Godevo del mio successo.
Godevo che ero riconosciuto.
Mi pensavo sempre con gente più grande di me,
con donne più grandi di me,
che mi avrebbero amato.
Perché gli altri ragazzi,
finite le riunioni,
dopo che ognuno aveva ricevuto la sua razione di impegni,
scomparivano.
Si formava uno spazio di silenzio attorno a me.
Nessuno sapeva il giorno del mio compleanno.
Nessuno mi chiamava in un pomeriggio di noia
per fare una passeggiata insieme.
Mi rispettavano ma non mi amavano.
Mi rispettavano ma non mi credevano.
Soprattutto quando parlavo dell’amicizia.
Le ragazze mi scansavano come se fossi un oggetto alieno.
Con loro ancora facevo il gentile.
Pensavo a mia madre che faceva la gentile.
e a mio padre che le urlava negli orecchi.
Puzza, l’amore dei grandi,
puzza maledettamente.
Pensavo a me piccolino, stonato ma gentile,
che tutti mi rubavano le cose.
Dura la vita dei gentili, durissima.
Pensavo a Peter Pan, gentile,
che decideva di non crescere mai.
Non c’è posto per i gentili nella vita.
E allora perché gentile io?
Per dare alle ragazze la scusa
di non avermi nemmeno visto?
Di non avermi nemmeno sentito…
Di dirmi: guarda io ti stimo molto,
stimo molto la tua intelligenza,
ma non provo niente per te.
C’era pieno di modelli in giro.
C’era pieno di attori famosi.
C’era pieno di fighi che ti insegnavano:
meno caghi meglio è.
Imparai da loro.
Imparai a dire:
no guarda non ho tempo,
e anche
scusa ma in questo momento ho progetti molto importanti
e anche
guarda che io voglio essere indipendente.
Cuccavo.
Finalmente cuccavo.
Ci cascavano un casino.
Baciavo il lunedì.
E anche il martedì, il mercoledì, giovedì, venerdi.
Sabato le lasciavo.
La domenica mi riprendevo.
Finche Giulia, una biondina dagli occhini dolci
Un sabato mi fa:
tu non hai cuore
Come io non ho cuore?
Tu non hai cuore.
Con tutte le cose che ti ho spiegato
come non ho cuore.
Tu non hai cuore.
Con tutti i discorsi che ti ho fatto
come non ho cuore.
Tu per me non esisti.
Tu per me sei morto.
Una volta si diceva tegola in testa.
I miei eroi avrebbero detto:
meteorite in testa.
Pensavo ai miei eroi,
ai guerrieri perfetti,
ai volti senza occhi,
alle macchine intelligenti,
ai conquistatori degli imperi,
ai crociati invincibili,
sfolgorava il metallo,
sfolgoravano le armature,
bagliori e riflessi.
Ma il cuore?
Ce l’avevano loro?
Sotto quanti strati?
E io, sotto quanti maglioni?
Faceva freddo. Camminavo per strada.
Il passo sentivo che diventava tutto sbilenco.
Senza equilibrio.
Come avessi le giunture arrugginite.
Come un soldatino di ferro.
Senza cuore.
Insomma tornai nella vasca da bagno.
E per un po’ di mesi non ci uscii più.
La gente diceva. “esaurimento nervoso”.
Mio padre: “testa troppo piena”.
Mia madre era contenta
perché finalmente ci si capiva.
Non volevo più libri.
Non volevo più parole.
Non volevo più idee.
Ma cosa mi portavo in vasca?
Un grande foglio bianco.
Bianco bianco. Bianco Fabriano.
Cosa disegnavo?
Cose strane.
Leoni che fuggivano davanti a un cane.
Leoni che piangevano per paura.
Spaventapasseri impiccati a un albero.
Spaventapasseri appesi a un bastone in mezzo al fiume.
Spaventapasseri che arrivavano i corvi,
gli mangiavano tutto dentro
e per terra rimaneva solo un mucchietto di vestiti sporchi.
Soldatini di ferro incastrati, rotti.
Tutti arrugginiti.
Messi in soffitto tra i giocattoli vecchi.
Che chiedevano un po’ d’olio per ripartire
E nessuno glie ne dava.

Due anni fa facevo questo lavoro.
Aprivo l’edicola.
Cinque e mezzo del mattina.
Scartavo i pacchi del giornale.
Con guanti e forbici.
Freddo da tagliare le mani.
Ordinavo.
Facevo il bollettini.
Poi, coperto come uno spaventapasseri,
mi chiudevo nel gabbiotto.
Aprivo i miei libri preferiti.
Libri con le figure.
Fumetti.
Arrivavan quelli che finivano la notte.
Volevano la Gazzetta fresca.
Arrivava qualche pensionato.
Voleva giornali seri.
Arrivavavano quelli col cane.
Imprevedibili.
Arrivava l’onda dei lavoratori.
Andavano subito via i giornali importanti.
Coi titoli grossi.
Guerra. Guerra. Guerra.
L’aria diventava più dura attorno.
Alle undici finiva il mio turno.
Arrivava il padrone dell’edicola.
Salutavo. Andavo al parco.
Tiravo fuori dalla borsa il miuo quaderno.
Bianco bianco. Bianco Fabriano.
E disegnavo.
Leoni, spaventapasseri, soldatini.
Un giorno sento tirarmi la giacca.
Una bambina.
Un vestitino da quattro soldi.
Due ginocchia sporche.
Tolgo lo sguardo.
Tira ancora  con la mano la giacca.
Mi volto.
Con le dita a cucchiaino davanti alla bocca mi fa il segno del mangiare.
Le do cinquecento lire.
Mi fa segno di no, arrabbiatissima.
Sta per far finta di piangere.
Io non voglio mollare il disegno.
Non voglio scocciature questa mattina.
Le metto in mano mille lire.
Scuote la testa.
Ancora?
Mi fa segno le cinquemila lire
che ha visto nel portafoglio.
Faccio il sostenuto.
Faccio segno di no. Basta.
Poi aggiungo altre mille lire.
Il Leone vigliacco che sto disegnando se la ride.
Lei sbuffa, fa per andare via.
Poi si avvicina.
Le cadono gli occhi sui disegni.
Con la mano accarezza i colori.
Che è? Mi chiede?
Un leone vigliacco.
E questo?
Un soldatino di latta.
E questo?
Uno spaventapasseri.
Cos’è spaventapasseri?
Troppo difficile da spiegare.
Fa per andare via. Torna.
E lì dietro.
Sbircia un  disegno.
Glielo faccio vedere.
Una città tutta verde.
Verde smeraldo.
Le piace verde. Adesso ride.
Come ti chiami?
Dori.
Figurati, Dori, penso.
Con quella faccia da zingara.
Dori? Dori..
Mi saluta e se ne va.

Due giorni dopo torna.
Si siede vicino a me e non dice niente.
Ma da dove viene?
Cosa fa sola di giorno a quest’ora.
Ma non va a scuola.
Sta seduta vicino a me e non dice niente.
Le sorrido.
Guarda il foglio bianco davanti a me.
Guarda la matita.
Mi dice: disegna circo.
Perché?
Disegna circo.
Obbedisco.
Dopo un po’ : perché circo?
Sorride tutta.
Mio padre circo.
Mio padre mago.
Dov’è tuo papa?
Fa segno con la mano: lontano, lontano.
Continuo a disegnare. Faccio la pista.
Metti leone, dice.
E va bene. Lo dipingo,
fiero e cattivissimo.
Lei ride.
Leoni no cattivi, forti.
Metti soldato.
Al posto del domatore faccio il soldatino di latta.
Lo faccio proprio vero. Con le armi.
Lei dice no.
Perché?
Guerra no, guerra no.
Ma è un soldato. Lo cancello.
Lo faccio più simpatico.
Dov’è tuo papà?
Papà mago, papà circo. Fai spaventapasseri.
Va bene, lo metto in prima fila,
tra il pubblico, che applaude contento.
Approvato al primo colpo.
Dov’è tuo papà?
Soldati, guerra, mi dice.
Mi fa segno con la mano: lontano, lontano.
Apre la cesta che porta con sé.
Mi da una rosa.
Chiede il disegno.
Ma sei scema, te lo do gratis.
Scuote la testa. Vuole pagare.
Vuole pagare con rosa.
Questo lavoro, mi dice.
Per te gratis.
Cosa fai? Le vendi le rose?
Sì.

Per cinque giorni non viene.
Un po’ mi dispiace.
Ma non ci faccio una malattia.
In un lato del parco, hanno montato una giostra.
Semplice semplice.
Coi cavallini e le automobiline spaziali.
Non c’è nessun bambino a quell’ora
eppure manda la musica lo stesso.
Io continuo a disegnare circhi.
Testa vuota, cosa sto facendo?
Testa vuota, cosa c’è nella tua fantasia.
Caos. Caos.
Papà non c’è più.
Non sono cresciuto papà.
Avevi ragione tu.
Testa vuota.
Mamma non c’è più.
A te sarebbe piaciuto il circo, mamma.
Saresti rimasta a bocca aperta per quasi tutti i numeri.
Dori non c’è più.
E invece sento la giacca tirare.
La vedo lì davanti a me.
Con il disegno in mano.
Mi guarda serissima.
Non va bene, mi dice
Perché?
Manco io.
Allora io prendo il disegno e
vicino al leone, al soldatino domatore,
allo spaventapasserispettatore, disegno Dori.
La disegno vestita da piccola ballerina col tutù.
La giostra manda una musica.
Lei ride felice.
La giostra manda una musica.
Lei improvvisa un balletto davanti alla panchina.
Come balla, Dori.
Sembra un soffio di vento.
Sembra un canto di uccellini.
Principessina dalle ginocchi sbucciate,
principessina dal vestitino sporco,
ti guardo incantato.
Avrei voglia di darti un bacetto.
Mi alzo e glie lo do.
Sento dalla panchina vicina una signora
che mi trafigge con lo sguardo.
La vecchia con il cagnolino incazzoso.
Non so se ha più paura di lei,
zingarella ribasoldi,
o di me, maniaco seduttore di bambini.
Vedo che si alza e si consulta
Col signore col cappello che legge il giornale.
Sento che devo intervenire.
Mi alzo e gli dico che faccio l’assistente sociale.
Che aiuto i bambini che trovo sulla strada.
Dove? Mi chiedono.
Azzecco l’indirizzo giusto.
Non so se mi credono.
Mentre mi allontano sento le parole.
Quelle parole.
Sempre le stesse parole
“Se…tornassero casa…loro…”
Le parole che fanno male.

Dori si è spostata verso la giostra.
Guarda incantata.
Vuoi, faccio?
Non risponde niente.
Pago, la faccio salire sul cavallino.
La giostra sta per partire.
No, fa lei con la mano. Come no?
Anche tu.
Come anche io? Anche io sul cavallino?
Sono troppo vecchio Dori?
Sono ridicolo qui sopra.
Mi vergogno qui sopra.
La giostra parte
E per la prima volta nella mia vita
vedo il mondo dall’alto
Di un cavallino di legno.
Gira tutto e tutto è più bello.
Disegno, disegno e i miei disegni stanno cambiando.
Ieri ho disegnato un leone che correva per la foresta.
In groppa aveva una bambina.
Ho disegnato un leone che guadava a nuoto un fiume.
In groppa aveva una bambina.
Ho disegnato uno spaventapasseri che cadeva.
E poi si rialzava.
Cadeva e poi si rialzava.
Come un acrobata.
Ho disegnato uno spaventapasseri
che si gettava dentro un burrone.
E non si faceva male.
Ho disegnato un soldato di ferro
che al posto delle mani aveva due lame,
e con quelle si faceva largo nella foresta.
E dietro c’erano un Leone e una bambina.

Stasera sono molto emozionato.
Perché stasera uscirò con lei.
Mi ha dato appuntamento davanti al ristorante “L’ancora”.
Mi ha detto di essere elegante.
Ho il cuore in gola.
Lei arriva, elegantissima.
Ma dove avrà trovato quel vestitino tutto elegante.
Mi strizza l’occhio.
Entra.
Sorride al cameriere.
Per un attimo anche lui stregato.
Si avvicina ai tavoli.
Offre le rose.
Due o tre riesce a venderle.
Sorride. Sorride sempre.
Esce.
Camminiamo per la strada.
Mi da la mano. Le do la mano.
Alla faccia della paura.
Quando sarò grande ti voglio sposare, mi dice.
Io penso che quando sarà grande io sarò in pensione.
Va bene, lo stesso.
Anch’io quando sarò grande ti voglio sposare,
le dico.
Lei ride.
Se lo sa mio zio ti ammazza, mi dice.
Cosa. Che ti voglio sposare?
No, che cammini con me in strada la sera.
A mezzanotte lui viene a prendermi.
Tu sparire .
Chiaro?

E’ sabato.
E’ il giorno in cui di solito lasciavo le mie fidanzate.
Sono le undici e mezzo.
Saluto Dori.
Mi porti in  stazione, domani mattina,
mi chiede.

Si mette lì, davanti ai binari.
Guarda lontano.
Ma cosa guarda.
Casa, voglio tornare a casa, dice.
Dov’è casa?
Dov’è mio papà.
Che mago è tuo papà, gli chiedo.
Se sei triste lui parla,
poi non sei più triste.
Se hai dolore d’amore lui guarda,
dopo tu non hai più male.
Se hai  paura lui ti da da bere.
Dopo non più paura.

Usciamo. Guarda le facce.
Slavi, filippini, colombiani, indiani.
Hanno i tappetini distesi per terra.
Vede un supereroe cattivissimo.
Con la sirena e armi spaventose.
Lo vuole. Compro.

Ma dov’è finita?
Dove sta andando,
che vedo che corre via, veloce come il vento.
Chi è quell’uomo che abbraccia.
Che butta la giacca per terra e che
sembra voglia strapparsi la camicia.
Perché lei piange e lui urla.
Ma che film è, questo?
Ma sono in un film?
Lei torna e mi dice “papà tornato”.
E si allontana. Mi fa segno con la mano.

Perché piango anch’io adesso?
Cosa fai, principessa?
Mi lasci solo?
Mi fai tornare al parco da solo.
Cosa dipingo adesso?
Non ti vedrò più?
Io comunque alla panchina ci torno.
Tutti i giorni.
E preparo una lettera per tuo padre.
So io cosa chiedergli.

Un giorno ti vedo apparire.
Dietro c’è lui, un po’ in disparte.
Sembra che si vergogni.
Ha la faccia buona.
Mi dici: noi domani torniamo a casa.
Proviamo a tornare.
Ti do un bacetto per l’ultima volta.
Ti do una lettera per lui.

Sulla lettera c’e scritto:
“Signor mago, papà di Dori.
Come si fa ad avere cuore?
Come si fa ad avere coraggio?
Come si fa a non sentirsi
come un sacco vuoto,
come un pupazzo scemo?”

Tre giorni dopo, nella cassetta della posta,
trovo un biglietto senza busta,
firmato da un petalo di rosa.
Con una calligrafia stentata c’è scritto.

“Gentile signore,
lei il coraggio ce l’ha,
e anche il cuore.
E’ stato padre,
quando io non c’ero.
Noi adesso torniamo a casa.
Anche lei deve trovare la sua casa.”

Ma dov’è la mia casa?
Sono i due locali in periferia dove vivo?
Non credo, non credo proprio.

E’ il parco?
Un po’ di più, ma no,
nemmeno lì è la mia casa.

In bagno sta succedendo un casino.
A forza di disegnare il circo
ho cominciato a fare spettacolo in bagno.
Faccio spettacolo con le bolle di sapone.
Ho anche cominciato a costruire il soldatino di latta,
il leone vigliacco, e lo spaventapasseri scemo.
Sono molto belli e fanno molto ridere.
Ai piedi della vasca da bagno si è riempito
di chiodini, scotch, vinavil, fili elettrici,
cellophan, organetti, tenaglie, pinze,
servono per la costruzione.

Adesso so dov’è la mia casa.
E’ qui dove costruisco cose inutili.
Cose che serviranno per strappare
un minuto di stupore a chi mi guarda.
Di incanto. Di sogno.
So qual è il mio popolo.
Ha faccia di bambini che all’improvviso ridono,
di vecchi che guardano con occhi sgranati,
di giovani che mi guardano
e si chiedono: ma come si fa?

So qual è il mio cielo.
E’ quello attraversato dalle stelle che cadono.
Durano meno di un secondo,
ma parlano di desideri.
Se ne vedi una la sera,
dopo non parli d’altro.

Ieri ho fatto il mio primo spettacolo.
Ho anche sentito il bisogno di cambiare nome.
Il presentatore ha guardato il pubblico
e ha detto.
“Signore e signori, a voi,
il mago Oz.
Chiamo quasi sempre a lavorare con me
una piccola bambina.
Io la chiamo Dori.

Fine.