Io, Pacha della spiaggia, amica dei granchi, dei molluschi, della musica giamaicana. Lì, piccola, cammino scalza, ogni gioco un’invenzione, come la felicità.
Io, Pacha dell’esilio, quella che perde casa e patria, quella che si perde.
Io, Pacha della guerra, vedo i morti gonfi e i contadini che chiedono pietà.
Io, Pacha della strada, giro libera, a conoscere la mia città labirinto.
Io, Pacha madre, con la figlia piccolina nella pioggia notturna.
Io, Pacha della calle negra, il terrore e la pietà scomparsa.
Io, Pacha del barrio, la mia casa era fortezza, rifugio e luogo di riunione.

Io domani sarò Pacha della Chureca, del basurero, dell’immondezzaio. Andrò lì, dove nessuno vuole andare. Dove nessuno pensa sia possibile andare. A cercare il mondo oltre il mondo. Nel terribile, in quello che non si può e non si deve vedere. E neanche raccontare

Domani partirò. Farò due passi fuori dalla melma del vicolo. Dalla melma del mio barrio. Dovrò lasciare: l’odore di cipolle fritte. Le ginocchia sbucciate. Le pietre di crack. I fili elettrici impazziti. Le nostre notti di paura e di pianto. Due passi fuori. Devo andare. Andrò. Pacha sceglie di andare. Ad incontrare melma sì, fango, sì. Però altra melma, altro fango.

Chureca è il nome del nostro basurero. Del regno della melma. Dove la melma si raccoglie e si spartisce, si divide, si filtra. Peggio dell’inferno, così la gente dice. Un luogo negro. E allora, vacci tu, negra. Tu, regina delle strade.  E’ tuo, Pacha. Tu ce la puoi fare lì. Hai il sangue giusto. Va bene, Pacha va nella basura, nella spazza. Regina della spazza. La gran regina della melma. Pacha, la negra santa, la negra trionfante. Con lacrime d’oro e la collana dei suoi figli uccisi, perla dopo perla, dolore dopo dolore.

Chi lascio a casa? Lascio a casa te, Niñita, figlia mia bella. Prediletta, gonnellino su gambette esili e quaderno di scuola macchiato, pieno di un alfabeto ancora a venire.

Lascio a casa voi tutti del barrio. Tanto vi porto dentro. Pacha va verso la discarica. Addosso tutto il caldo e l’odore di benzina di questa città. Addosso tutti gli svenimenti di questa gente che in piedi non riesce più a stare, in lotta con i mille diavoli, in lotta contro la gravità che la risucchia verso le fosse che hanno preparato per voi, non importa se giovani, non importa se belli. Addosso la fatica di tutte le donne di qui, sbilanciate da pance enormi piene di troppi figli. Figli santi, lo stesso. Che il figlio è santo. Sempre. Il figlio vita. Questo dice Pacha.

Lascio a casa tutti i vostri figli. Che se stanno in piedi è solo per botta di crack. Ragazzi che nelle notti randagie, con musica di cani selvaggi, mi vengono a trovare nella baracca. Che sanno che io sono Pacha de los dolores. Pacha de los amores. Pacha con le sue tette immense di negra immensa. Di cui siete affamati. Ma non per sesso.

Andrò, uscirò, supererò il cancello del barrio, la porta proibita, che divide la vita nostra, il girone nostro, la droga nostra, la morte nostra, dal suono dei clacson, là appena fuori, dalle urla dei venditori di strada, là appena fuori, dalla corsa quotidiana, appena fuori. Perché attorno a qui, a noi, barrio stracciato, la gente corre, ogni giorno, per carica automatica, e meccanica, verso il nessun dove, verso il nessun perché.

Città, sei una gran puta, che prendi i soldi e poi lasci il cliente lì in mezzo, senza neanche la possibilità di sborare, eccitato con la verga rossa e i testicoli che fanno male, ti prendi i soldi e poi lo sbatti alla porta, e se urla, e se piange, fai venire gli scagnozzi.

Città puta che ti ho dato tutto, che ragazzina ero e innamorata di te, che ti dicevo: prendi tutta la mia vita, falla scorrere, nei tuoi giardini spelacchiati, sulle tue panchine materasso, dentro i viali percorsi dagli ultimi autobus della notte, nei tuoi focos di sopravvissuti.

Città imputtanita, che adesso per i viali del sogno, davanti alle porte dei centri commerciali, fai la figa, sfili in passerella, con sorriso yankee e prezzi su cui anche i sogni piangono, figa in passerella che sfili sopra queste strade marce e, schierati sotto di te, a guardarti, contadini sdentati e ragazzi fantasma, e povere signorine, a volerti toccare, sfiorare, sollevare le ascelle, per godere il profumo di Chanel taroccato, di Louis Vuitton, di Kenzo, tutti sniffano aspirano l’ascella puzzolente e cadono come morti, come sospesi, come annichiliti in un sonno che non conosce più alcun sogno.

Città che adesso mi sfidi: vai là, Pacha, tu che sei terra, a conoscere la terra ultima, squartata, rovesciata, a conoscere i figli di quella terra. Questa è la tua ultima missione, Pacha, conoscere la terra attraverso la terra che non c’è più. Vai, cammina. Vestiti bene, Pacha, il pantalone sarà non sporco e il capello pettinato.

Camminerò, dovrò camminare, sempre avanti, finché negozi non ce ne sono più, solo officine polverose, depositi, cani feroci, muri spettrali, scritte abbandonate di passioni antiche, pubblicità scolorite e sbrecciate, fino a quando sentirò dietro i camion della discarica, che fremono, passano velocissimi e brillano al sole, portatori di morte e di scarto.

Domani sarà il giorno della cerimonia, domani diverrò madre e reyna del basurero, e domani voglio essere bella, sedermi sul mio trono di rifiuti e da lì cominciare a gridare che Pacha è lì, che Pacha non si scorda dei suoi figli, che Pacha non ha paura, che Pacha non ha schifo, che non sa cosa è lo schifo, che Pacha è lì perché tutti si alimentino e la divorino, perché Pacha è madre sempre e può dare sempre. A domani.