La guerra non è un tema.
Non si chiama Kossovo, Mafia, Chiapas.
Non farsi belli della guerra.
Non aggiungere  l’ennesima perlina
alla collana del “politically correct”.
La guerra racconta di noi,
del nostro rapporto col mondo.

Tanto teatro vive ignorando la guerra.
Per ignoranza si ignora.
Per l’arroganza tipica dei professionisti invecchiati.
In omaggio agli ultimi miti decadenti “sull’essere artisti”.
L’unica guerra che conosce è quella meschina
per la sopravvivenza.
Occupare poltrone. Trombare l’avversario.
Vendere più del gruppo concorrente.
Intortare il critico. Passare il provino.
La tristezza: giovani che invecchiano
aspettando di passare i provini.

La guerra vive nelle nostre cellule.
E’ quella a bassa intensità che si avverte quando si guarda fuori
e ci si accorge che il mondo sta morendo.
Consumato dalle regole di una “necessità”
che ha assunto la forma dell’incubo.
Le leggi oggettive del mercato.
Le leggi oggettive del sopravvivere.
Palle.

Allora non si parla di Chiapas.
Si è Chiapas.
Si partecipa a quella bestemmia.
Si è Vajont.
Si è quel paese distrutto.
Si è la guerra presente nel mondo, perché, qui e ora,
la stiamo vivendo.

Testimoniarlo è atto d’amore.
E’ anima che trabocca e si espande.
Che incontrando l’altro incontra se stessa.

Non si può che essere teatro di guerra, sempre.
Con visione e fantasia.
Imparando dagli errori del passato prossimo.
Non affrontare il nemico sul territorio a lui favorevole.
Non copiarne il linguaggio.
Non accontentarsi della miserabile nocciolina
rappresentata dal “riconoscimento della diversità”.
Disinteressarsi del ricambio generazionale.
Delle politiche rivolte ai “giovani gruppi”.

Dedicare forza e amore e passione
al pezzo di mondo che si sta costruendo.
Sapere che solo quel mondo, quei fratelli,
sono la tua forza,
il virus che potrà espandersi ed attecchire.
Essere più belli del nemico.
Praticare la sfida disarmata.

Essere coscienti che le luci del “centro”
vivono di uno splendore mortuario.
Costruire nuove forme di produzione e di incontro.
Pensare al teatro come a una selva
in cui, inizialmente pochi, si ha bisogno di capirsi,
di sperimentare leggi ed etiche,
forme della solidarietà, dell’incontro, della creazione.
Nessuna distinzione tra noi e il pubblico.
Ogni spettatore è un’artista che ti guarda.
La scommessa è comune.

Quando la colonna sarà pronta per partire
che il viaggio sia meraviglioso.
Nel frattempo, lavorando nel piccolo,
costruire mondi che permettano il respiro.
Essere combattenti della guerra che mira
a incrinare l’ignoranza.
Estinguerci nelle nostre identità fasulle.
Rinascere ricreando il sogno dell’arte.

Gigi Gherzi