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Tecniche stranianti e passaggi di testimone
nel progetto “Pacha della strada” di Pietro Floridia e Gianluigi Gherzi

Il progetto “Pacha della strada” di Gianluigi Gherzi e Pietro Floridia nasce dall’avere incontrato una persona, Pacha, e assieme a lei una memoria e un linguaggio di immagini tragiche e bellissime, dove si ritrova la realtà stessa, rigenerata, però, da un sguardo che ne accende l’umanità.
Ciò che la narratologia chiama mondo diegetico, quando lo si incontra nella vita, al di fuori di qualsiasi contenitore formale, si presenta come manifestazione e irraggiamento d’un più forte sentire che sospende certezze ed abitudini: nel percepirlo, si pensa il pensiero d’un altro, si indossano i suoi sensi, i suoi occhi, il suo udito, anche il suo respiro, così diverso dal ritmo al quale si è abituati, che si ha quasi di soffocare per mancanza di polmoni adeguati.
La normale condizione del lettore, che percepisce voci, immagini e sensazioni scritte, allorché si produce in assenza di scrittura, cessa di essere normale per costituire un’eccezionalità traumatica. L’autore, in tale caso, non si trova al di là di sistemi di segni fissati, che possiamo riporre e riprendere quando meglio crediamo, ma è totalmente presente: eccezionale, enorme, imbarazzante. Non essendo rappresentato da esiti artistici, non è racchiuso in forme in attesa di interlocutori che le facciano vivere, ma irradia direttamente il mondo della sua storia, lo costruisce, insomma, non per volontà creativa, ma esercitando spontaneamente la parola e il linguaggio della presenza. E, così facendo, include senza mediazioni formali chi ne percepisce l’opera. E cioè il suo esistere.
L’interlocutore diviene allora il depositario d’un mondo diegetico in libertà, non formalizzato né ripetibile o conchiuso, eppure nitido, connotato da precise qualità del sentire e del linguaggio, e aggrappato alla realtà che ne viene rivoltata, rivelata, spiegata. Nei confronti di questo mondo, le sue responsabilità enormi: può tanto disinnescarlo facendolo defluire in un bagaglio mnemonico strettamente personale, oppure promuovendone la trasmissione. Gherzi e Floridia hanno avvianto a tal fine la ricerca di altri contesti, di altri ascolti e, soprattutto, di altre forme del comunicare che risarcissero l’assenza d’un autore che si esprime esistendo, e che non è nemmeno un autore in senso stretto, tranne che per chi ne percepisce l’identità e le visioni, divenendone così il testimone.
La percezione di mondi diegetici non mediati da forme che ne stabilizzino i contenuti e le possibilità di ricezione, mette il teatrante in una posizione incerta e indefinita, sospesa fra una dimensione introspettiva ed intima e il bisogno di condividere le acquisizioni fatte stabilendo nuovi veicoli relazionali.
Gherzi e Floridia hanno reagito alla conoscenza di Pacha, sperimentando un diverso patto percettivo con lo spettatore, che, nel loro progetto, non si confronta con personaggi drammatici né con narrazioni né con performance simboliche e allusive, ma riveste un ruolo d’interlocutore strettamente analogo a quello svolto dai due teatranti nei confronti di Pacha, con la differenza che, qui, a rispondere alle domande, a suscitare impressioni e allargamenti percettivi non vi è Pacha, ma un testimone delle sue storie e delle sue visioni, Gherzi stesso.
Nel progetto “Pacha della strada” l’autrice originaria non viene né rappresentata da un attrice, che ne reciti la parte, né raccontata da un narratore, che la includa nel proprio mondo diegetico. Pacha esiste in quanto assente, per questo possiamo pensarla direttamente e non attraverso il filtro d’una versione formalizzata; al suo posto troviamo l’identità non sostituita e reale d’un testimone, che reagisce alle sollecitazioni del pubblico intrecciando filamenti di memoria.
Il percorso compiuto da Gherzi e Floridia è indicativo delle dinamiche compositive del teatro contemporaneo, dove, venuti meno canoni di riferimento relativamente stabili e generalmente seguiti, si sviluppano drammaturgie individualizzate che combinano elementi ricavati da diverse tradizioni e modalità di contatto: epico/narrative, drammatiche, informative in senso giornalistico, concettuali, artistico/oggettuali, visive, interattive e multimediali.
Il progetto “Pacha della strada” fa sfociare in un sistema relazionale aperto gli sviluppi dell’«esperienza vissuta», «già di per sé – osserva Turner – un processo che ‘preme fuori’ verso un’‘espressione’ che la completi».
L’avere sostituito allo svolgimento narrativo e al personaggio interpretato, interazioni non preordinate, percorsi fra elementi oggettuali legati a quaderni con sopra “un interrogativo, una provocazione, una visione poetica”, scambi di impressioni a partire da immagini fotografiche, evidenzia, in Gherzi e Floridia,  il consapevole intento di non esprimere formalmente Pacha e la sua storia. E cioè, di non confinare né l’una né l’altra in performace strutturate, che si metterebbero in concorrenza con l’autonoma identità del referente reale, contrapponendo alla fluidità dell’esistenza il proprio solido impianto di composizioni realizzate.
La narrazione, infatti, organizza il narrato, stabilendo, a partire dall’assimilazione del contesto diegetico, connessioni, passaggi, inserti, descrizioni, climax, toni discorsivi o ritmati, pause, impennate foniche, gesti e movimenti, che, nell’insieme, conformano e stabilizzano di replica in replica una evento spettacolare che si radica nella percezione del pubblico come esperienza sostitutiva della conoscenza diretta della realtà storica, come espressività vicaria delle realtà originarie. Se anche le catene di interessi economici, negligenze e omissioni intenzionali che hanno portato a catastrofi umanitarie, come quelle del Vajont, della Montedison di Mestre, della fabbrica di Bophal, non si sono risolte con la punizione di un colpevole, lo spettatore, ascoltando le testimonianze raccolte dal narratore, ha l’impressione di poter concludere egli stesso la storia, giudicando i responsabili nel proprio forum interiore.
Rispetto alla realtà, il racconto è tutt’altro che un riflesso inerme e gregario. Anzi, struttura la memoria, coniuga l’accaduto al vivere e rimette in gioco il passato. Per questo, nelle civiltà pretecnologiche il narratore esercitava essenziali funzioni compensative, elaborando in forme di cultura collettiva la perdita del passato.
Seppure sminuiti e resi marginali dal prevalere d’un presente globalizzato, multimediale e ipertecnologico, questi poteri della narrazione continuano a imporsi all’ordine degli eventi. Il raccontare, infatti, seda l’angoscia dell’irrisolto, contrapponendo la struttura della storia, che ha un inizio, uno svolgimento e una conclusione, all’illogicità del narrato dove una fine catartica, che punisca i colpevoli e salvi l’idea  che la giustizia esiste, non giunge che di rado.
Gherzi e Floridia, con il progetto “Pacha della strada”, si sono rifiutati di contenere l’argomento nell’evento scenico, di fare di Pacha un contenuto. Invece di percorrere la via della forma, hanno cercato quella del contatto facendo del compimento performativo delle esperienze vissute, non già uno spettacolo, bensì il veicolo della loro riattivazione comunitaria.
A differenza della grotowskiana  «opera d’arte come veicolo», il veicolo approntato dal progetto «Pacha della strada» non incanala i flussi di energia all’interno del performer ponendosi il fine d’una assoluta organicità psico/corporea. Piuttosto, agisce in quanto tramite di percezioni, realtà e conoscenze; il suo contesto non è il corpo del performer ma il mondo dove viviamo.
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Nel 2002, Gherzi si trova a Managua per fare interviste che sarebbero poi confluite in un libro sui bambini di strada, Tuani; in questa occasione avvicina casualmente Pacha, che fa l’educatrice occupandosi dei diseredati che vivono nei barrios della città. Durante l’intervista, Gherzi si accorge che Pacha – è questo il nome convenzionale col quale, d’accordo con lei, decide di coprire la sua vera identità – non soltanto lavora in una realtà difficilissima, ma la contiene, la riassume, la illumina con le sue vicende, il suo immaginario e il suo vivere. Nel 2004, ripensando all’episodio, Gherzi decide con Giovanni Giacopuzzi, traduttore delle interviste di Tuani e coautore del testo, che Pacha sarà il punto di partenza per il loro prossimo romanzo dal vero. L’anno seguente la intervista per tre settimane due o tre ore al giorno, accumulando un vasto materiale che, riscritto e integrato diventerà il romanzo Pacha della strada. Una donna, un barrio, in Centroamerica (Roma, Sensibili alle foglie, 2008), e memorizzato sarà condizione e fondamento del corrispondente progetto teatrale “Pacha della strada”. Il 2006 è dedicato alle traduzioni. Nel 2007 entra in scena Pietro Floridia, regista e drammaturgo della Compagnia Teatro dell’Argine, al quale Gherzi fa leggere le interviste a Pacha proponendogli di lavorare teatralmente sul tema della “grande madre”. Florida che, in quel momento sta realizzando uno spettacolo su Ecuba, sente l’argomento vicino. Nell’estate dello stesso anno, a Managua, Gherzi scrive il romanzo, mentre Floridia conosce l’ambiente dei barrios e, naturalmente, Pacha.
L’impressione è sconvolgente. Floridia, autore, regista pedagogo e inventivo tessitore di rapporti fra differenziate identità sociali, avverte in Pacha un diverso modo di toccare e sentire la realtà. Gli sembra che il suo linguaggio apra varchi conoscitivi a confronto dei quali le forme relazionali del teatro appaiono non sufficientemente coinvolte, non veramente consapevoli delle esistenze intercettate. S’immedesima così nella vista diversa di Pacha. Gli lascio la parola:

Ho passato alcuni giorni con Pacha. Mi ha portato nei suoi luoghi, mi ha fatto da guida nel mondo della strada. Un mondo fatto di bande di bambini che sono cuccioli randagi, di libertà e di degrado, di condivisione e di violenza.
Per me Pacha e la strada sono diventate tutt’uno. Pacha e la strada come aperture al mondo. Aprirsi in strada in opposizione al chiudersi in casa. In opposizione dunque all’atteggiamento dominante del mondo da cui provenivo. E allora Pacha è diventata uno sguardo. Uno sguardo altro con cui rileggere tutte le categorie del mio mondo. Uno sguardo come un grimaldello che scardina la mia visione delle cose, quella che ritenevo l’unica possibile, e come tale necessaria e immodificabile. Era strano, mentre mi portava in giro per le strade di quel mondo lontanissimo dal mio, era come se mi suggerisse un’altra maniera di interagire con quanto invece io sentivo di più familiare e a me vicino.
Ero testimone di un’inarrestabile invenzione della vita, di continue improvvisazioni di fronte agli eventi sempre imprevedibili che la strada prospettava, del riuscire a cavare vita, a cavare comunità persino dal più mortifero immondezzaio. (Da un promemoria di Floridia a Guccini)

Quando il drammaturgo percepisce attraverso la vista degli altri e si fa abitare dal loro modo di vedere e rapportarsi, la qualità delle sua immedesimazione richiama, quale modello più prossimo, la composizione del personaggio. Il percorso teatrale di Gherzi e Floridia avrebbe potuto dunque sfociare in un monologo di Pacha: anta realistica e contemporanea d’un eventuale dittico dedicato al tema della “grande madre” e costituito, oltre che dal racconto dell’educatrice di Managua, dalla storia di Ecuba, scritta e diretta nello stesso periodo dal drammaturgo/regista della Compagnia Teatro dell’Argine.
Gli elementi erano già tutti in campo. Nel romanzo di Gherzi, Pacha racconta in prima persona la propria ed altre storie; mentre, nelle percezioni di Floridia, l’identità della donna si arricchisce di dettagli comportamentali direttamente osservati. Implicito e già esistente nella combinazione di testo e riporti dal vero, il personaggio-che-si-racconta.
Giunti alle soglie d’una drammaturgia del testo per surriscaldamento delle percezioni intorno a Pacha e anche per via della vasta documentazione raccolta, Floridia e Gherzi escludono sia la forma del monologo che quella della narrazione. La prima avrebbe sostituito la vita reale del referente drammatico con un’esistenza virtuale implicata dal testo e affidata alle capacità interpretative dell’attore. La seconda correva il rischio di compensare l’assenza del narrato col suo consolatorio salvataggio in forma di racconto.
La soluzione che scelgono è quella dell’ “improvvisazione reale di volta in volta”; sembrerebbe una via antitetica al testo, magari, intrapresa in reazione alla facilità con cui si sarebbe potuto ricavare un monologo dalle pagine del romanzo di Gherzi e Giacopuzzi, già scritto in prima persona e scenicamente disponibile. Eppure, in questo caso, l’improvvisazione stabilisce con la dimensione testuale rapporti tutt’altro che univoci e, anzi, attivi in direzioni pienamente contrapposte. Se, da un lato, sostituisce se stessa al testo che avrebbe potuto suscitare, dall’altro, si mette al servizio dei referenti reali del romanzo, convertendo le parole scritte in memoria dell’autore e restituendo i contenuti alla fluidità del vivere. Facciamoci descrivere questo snodo da Gianluigi Gherzi:

Autunno 2007: Io e Giovanni terminiamo il romanzo. prima settimane di prova con Pietro. Il metodo è quello dell'improvvisazione su domanda. Non improvviso sui capitoli del libro ma su quelli che Pietro ritiene essere degli assi importanti della riflessione: l'origine, la città, l'esilio, le pratiche della condivisione. A volte improvviso sulla storia di Pacha, anche quello che so e che nel libro non è entrato, delle volte sul latino America in generale, spesso sulla mia riflessione e lettura di quella situazione. Pietro chiede registri di improvvisazione diversa: Dal narrativo, al sociologico, al politico, al poetico.
Primavera 2008: Sbobinamento delle mie improvvisazioni. Circa cento pagine di materiale "buono"..
Decisione di "non mettere in scena il romanzo". Di non chiudere l'atto in una narrazione. Pietro decide che il meccanismo improvvisativo sarà il centro del mio stare in scena. Individuazione del rapporto con il pubblico e del "teatro dello spettatore" come asse centrale del lavoro.
Giugno 2008. Prove dello spettacolo. Non esiste testo fisso. Ci sono tutti i materiali del romanzo, quelli delle interviste a Pacha e i materiali delle improvvisazioni sbobinate a cui attingo in improvvisazione di volta in volta. Ma ci sono anche materiali nuovi, improvvisati di volta in volta partendo dalle domande degli spettatori, dai pensieri scritti da loro rispetto ai temi dello spettacolo, ai fatti di cronaca di quel periodo, per esempio in giugno eravano in pieno all'interno dell'ondata anti-rom, tema che rientrava continuamente nelle prove. Il racconto della storia di Pacha è solo uno dei punti dell'atto. L'altro è il racconto dello sguardo e della riflessione di Gigi e Pietro su quei temi, l'altro è la risposta-domanda rispetto ai contributi del pubblico su quei temi. Nessuna messa in scena del romanzo. Nessun testo fisso. Improvvisazione reale di volta in volta. (Da un promemoria di Gherzi a Guccini)

Inizialmente, Gherzi improvvisa sperimentando la diffusa modalità narrativa dell’oralità-che-si-fa-testo e, quindi, rilegge  e valuta le sue affabulazioni individuando i punti da conservare. Poi, a seguito delle indicazioni di Floridia, l’improvvisazione si trasforma da sistema di scrittura orale in prova dell’azione scenica così come avverrà: improvvisando. Di conseguenza, le prove e gli spettacoli si svincolano dalle successioni del processo produttivo per funzionare come un sistema di vasi comunicanti.  Al suo interno, le improvvisazioni suscitate dalle domande degli spettatori vengono nuovamente esposte e memorizzate aumentando i materiali del narratore/testimone, che comprendono quindi nel complesso testi scritti (il romanzo), testi trascritti (le prime affabulazioni) e testi orali.
Questo repertorio strettamente personale equivale, sotto certi aspetti, ai “materiali generici” dei Comici dell’Arte, che costruivano le improvvisazioni o combinando all’impronta frammenti di testi mandati a mente o simulando l’estemporaneità di montaggio orali precedentemente definiti. Però, le analogie fra le improvvisazioni di Pacha e le tecniche della commedia improvvisa si fermano qui. E cioè all’esistenza di strati mnemonici che vengono rilanciati nel corso dell’azione verbale. Per il resto, le modalità d’uso e le finalità espressive dei contenuti mnemonici divergono ampiamente. Per Gherzi, innanzitutto, non sono essenziali le parole dei testi mandati a mente ma gli angoli di realtà che ne vengono illuminati. Il romanzo, le affabulazioni e i riporti dagli spettacoli stabiliscono un “teatro della memoria” capovolto. Mentre, nelle tecniche retoriche delle memoria, le immagini custodiscono parole, qui, le parole custodiscono immagini: un composito panorama di Managua e dei luoghi di Pacha, dove sono rubricati centinaia di oggetti, innumerevoli anfratti, decine di persone, riflessioni, suoni, impressioni di odori, di caldo, d'umidità, di sporco, di calore.
Lo spettacolo si apre alle sollecitazioni del pubblico in due momenti distinti, che descrivono, anche attraverso gli spostamenti spaziali, un movimento di avvicinamento a Pacha.
Dapprima gli spettatori, si muovono liberamente fra manufatti composti da Pietro Floridia utilizzando oggetti usati, consunti, che fanno pensare a cose gettate e che pure, nel momento stesso in cui inducono l’idea del pattume, del rifiuto, della discarica, vi accendono dentro il lume della bellezza. Sono realmente belli: finestrelle che si aprono su meccanismi misteriosamente illuminati; ingranaggi che nati dall’immaginazione la sollecitano e fanno funzionare. Accanto ad ogni manufatto c’è una domanda e un blocchetto di fogli. Gli spettatori scrivono la loro riposta e la ripongono in un contenitore. Gherzi, incominciando a parlare di Pacha, utilizzerà questi foglietti come tracce, ne leggerà diversi, uno dopo l’altro, trovando nelle loro connessioni il piano del racconto.
Dopo aver bevuto insieme ed essersi seduti non più frontalmente a Gherzi, come nella parte appena descritta, ma in cerchio e più vicino a lui, gli spettatori guardano delle foto del Nicaragua, se vogliono  possono scrivere sul retro le impressione che queste immagini suscitano in loro. Gherzi chiede ad alcuni di dire il loro scritto ad alta voce. È come se un sasso lanciato nello stagno non producesse cerchi concentrici nell’acqua ma figurazioni di volta in volta toccanti e sorprendenti. Le frasi suscitano racconti grotteschi, personaggi vitali oppure tristi traiettorie di declino, malinconie, rabbia. Tutte facce della storia di Pacha. La regola è improvvisare i legamenti, ma non inventare nulla. Ricordo una frase che parlava di mani che si stringevano sulle stelle; Gherzi ha un momento di smarrimento poi ricorda due mani che s’intreccino sulla fibbia d’una cintura, siamo vicino a un distributore di benzina, alla periferia di Managua, un posto pericolosissimo, in cielo splendono stelle enormi.
Il tono di Gherzi presenta, nella calma dell’esposizione, nel rifiuto delle accentuazioni emozionali, nella ricerca dell’espressione pertinente e nell’adozione d’un criterio di verità che rallenta il ritmo discorsivo, suggestive risonanze didattiche. Siamo lontanissimi dai climax di Paolini, dalle accelerazioni mantriche di Celestini o dalle abilità interpretative di Laura Curino. Ciò che il progetto “Pacha della strada” propone non è un opera, bensì una persona che, non essendo né rappresentata né narrata, ci raggiunge dal suo mondo così come lo immaginiamo.
Gherzi costruisce le “lezioni” su Pacha a partire dalla diversioni impresse dal pubblico, non trasmette, quindi, le forme d’una conoscenza acquisita, bensì il suo muoversi all’interno di orizzonti del vissuto, che si riflettono in questi pellegrinaggi alla ricerca d’un riscontro.

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Il progetto “Pacha della strada” affronta i vuoti della drammaturgia delle relazioni. Per comprendere questo aspetto della sua genesi, occorre portare l’attenzione su una pratica scenica distante tanto dalla narrazione che dalla forma monologo.
Floridia e Gherzi hanno realizzato, sia individualmente che assieme, importanti spettacoli in progress basati su attività laboratoriali condotti con ensemble differenziati composti da partecipanti “non ancora attori”, da “attori sociali”, da professionisti scenici e  Si tratta di lavori che pervengono ad esiti compatti e drammaticamente significativi attraverso un lavoro collettivo di improvvisazione, che costruisce il personaggio in quanto risultante prodotta dal rapporto fra la persona dell’attore e i referenti tematici del processo. La personificazione di identità radicalmente estranee agli elementi dell’ensemble, non rientra, dunque, fra le possibilità di questa drammaturgia, che annovera fra i suoi esponenti evidenti il Martinelli dedito a Jarry e impegnato sul fronte di Scampia, Armando Punzo, il Pippo Delbono di Barboni, César Brie e i registi specializzati nel teatro delle diverse abilità.
Esaminiamo queste dinamiche drammaturgiche e i loro riflessi sulla nozione di personaggio attraverso due esempi: Il balcone di Giulietta e Errata corrige.
La poetica teatrale di Floridia si precisa in un lavoro realizzato con la giovane compagnia teatrale Le Saracinesche O.T.E. (Ozzano Teatro Ensemble): Il balcone di Giulietta (finalista del Premio Scenario 2003). In questo lavoro, il regista/drammaturgo sostituisce i personaggi di Shakespeare con degli enormi fantocci animati a vista da servi di scena che, al livello della finzione drammatica, sono altresì i servi dei Capuleti e dei Montecchi. I dialoghi  nascono così dalle dinamiche improvvisative degli attori, uscendo dalla giurisdizione estetica del testo shakespeariano che fornisce termini di confronto, un immaginario comune, una sponda referenziale da cui rimbalzare con invenzione tematiche e linguistiche. Nel programma di sala, leggiamo che il regista e l’ensemble hanno inteso raccontare

la vicenda degli amanti veronesi dal punto di vista dei loro servi, quelli che il balcone di Giulietta lo hanno costruito, quelli caduti negli scontri di Tebaldo o di Mercuzio, ma di cui nessuno sa niente, quelli licenziati e finiti per fame a ‘spacciare’ veleni letali, quelli, insomma, che fanno il lavoro sporco che nessun altro vuole fare.

L’esclusione dei protagonisti e l’elezione di personaggi vicari che ne veicolino il mondo diegetico, sono dispositivi suscitatori di drammaturgie derivate; nell’innovazione italiana questo sistema è caratteristico degli spettacoli di Laboratorio Teatro Settimo: in Elementi di struttura del sentimento (1985), tratto dalle  Affinità elettive di Goethe, le serve seguono fino alla catastrofe le vicende sentimentali dei padroni, nella Storia di Romeo e Giulietta (1991) la tragica fine dei due amanti viene ritualmente celebrata dai sopravvissuti, nel Tartufo (1995) il personaggio titolare è risolto con un enorme fantoccio. Floridia, però, immette in questo spettacolo giovanile un elemento originale e continuerà ad accompagnare i suoi successivi lavori. Si tratta del ricorso a metafore concrete, che, in quanto eventi materiali, si traducono in attività fisiche e, in quanto metafore, abbinano tali svolgimenti a percorsi di senso e schemi discorsivi. Nel Balcone le metafore concrete promanano l’una dall’alta impostando una comunicazione a centri concentrici.
Prima metafora concreta: “Perché tante volte siamo governati da fantocci – dice Floridia – e, ciò nonostante, facciamo quello che vogliono loro? Di qui la scelta registica di fare interpretare i nobili a abnormi fantocci di pezza mossi dai servitori stessi, nonché di ricreare, pur nelle continue mutazioni che la scenografia subisce, sempre due mondi paralelli”.
Seconda metafora concreta: poiché i servi, per sopravvivere, sono costretti a reiventare la vita ad ogni occasione anche la loro lingua viene inventivamente ricreata dagli attori, che amalgamano comico e poetico restituendo col suono delle parole impressioni di fatica e violenza.
Terza metafora concreta è la meccanica dell’intero spettacolo, dove l’instancabile lavoro dei servi si fa immagine d’un rapporto fra individui sottomessi e potere, che semantizza ogni azione.
Vi è infine una quarta metafora concreta che include tutte le altre. I servi che costruiscono, rimuovono, spazzano e spostano sono anche immagine dei loro interpreti: attori/servi di scena. Le azioni dei primi coincidono con quelle dei secondi. Sia gli uni che gli altri ricoprono nei proprio contesti (quello drammatico e quello scenico) funzioni gregarie che, pure, li sostanziano. Vediamo, così, al di là degli enunciati teorici, cosa significhi in concreto fare del personaggio una “risultante prodotta dal rapporto fra la persona dell’attore e i referenti tematici del processo”.
Gianluigi Gherzi, attore, regista, scrittore e collaboratore di diverse compagnie italiane del teatro ragazzi  (Pandemonium, Assemblea Teatro, Teatro del Buratto, Quelli di Grock, la Ribalta, i Teatrini…), è uno dei più acuti e motivati interpreti delle necessità civili e formative del ‘fare’ teatro. Il progetto che ha avvicinato Gherzi all’attività di Floridia e della Compagnia Teatro dell’Argine è lo spettacolo Errata corrige – il giornale a teatro. Qui, Gherzi interroga le dimenticanze degli spettatore, indagando altresì i meccanismi per cui le notizie non penetrano nella coscienza collettiva. In scena vi sono lo stesso Gherzi, due attori che interpretano vari cammei drammatici e due giornalisti nel ruolo di se stessi (Matteo Scanni e Miotto). Inoltre, ogni rappresentazione prevede un ospite che parla del suo rapporto con l’informazione (fra i giornalisti hanno partecipato Piero Scaramucci, Monica Maggioni, Gerardo Bombonato, Piero Colaprico, Paolo Pardini, Chauki Senussi, Giulietto Chiesa…).
Sullo sfondo c’è un grande schermo; nel finale, un atlante politico proiettato sulla sua superfice svanisce pezzo dopo pezzo fino a lasciare la tela bianca. I contatti si sono interrotti, le informazioni non informano, le notizie scartate dalle agenzie compongono costellazioni di dati che non conosceremo e che, anche sapendoli, non sapremmo forse riconoscere. Cosa è essenziale? Cosa fa la storia? Cosa è significativo e come è possibile riconoscerlo e acquisirne conoscenza?

Il rapporto con la realtà – scrive Gherzi – non è un dato scontato, ma il frutto di una sperimentazione. È un atto volontario di ricerca, che implica la messa in gioco del proprio sguardo e delle proprie abitudini percettive, perché la realtà è sempre più sfuggente, sommersa e negata dalla macchina informativa; ci arriva mistificata e depotenziata, perché i media e l’industria dell’informazione la mettono in scena solo per confermare immaginari già dati e funzionali alle dinamiche di consumo.

Il dramma – possiamo dire parafrasando Gherzi – è l’esito di un rapporto sperimentale con la realtà, che, condivide in un contesto di relazioni dal vivo, le proprie motivazioni, modalità e obiettivi. In questa concezione, la dimensione personale degli attori genera personaggi sostanziando i contenuti della rappresentazione, mentre le realtà degli argomenti affrontati indirizzano – come nel caso di Errata corrige – la scelta delle presenze sceniche. Così il discorso sull’informazione passa attraverso il contributo di giornalisti stabilmente aggregati allo spettacolo e ospiti indicativi della categoria.
Capiamo, al confronto con queste dinamiche, il problema comportato da Pacha: persona provvista d’una identità e d’un linguaggio troppo connotati e forti per poter risultare dall’innesto con la personalità e i comportamenti d’un attore partecipante.
Per rappresentare Pacha occorreva Pacha: il discorso scenico sulla realtà si costruisce, infatti, con le realtà messe in scene. Con scelta organica a questa linea poetica, Floridia e Gherzi hanno, dunque, costruito la rete delle relazioni interpersonali intorno alla realtà dell’assenza. Pacha, qui, non è né personaggio né contenuto narrativo e si manifesta piuttosto, come già i dati di Errata corrige, in quanto realtà extra-scenica alla quale rimanda il lavoro del pensiero sulla memoria, che Gherzi, con intimo coinvolgimento e didattico pudore, esibisce di concerto alle reazioni del pubblico.