Appunti sul teatro e le cittadinanze
di Gigi Gherzi

Cittadinanza è una parola insidiosa. Proprio perché si presenta in una forma rassicurante, buona, pacifica, civile. Talmente buona da apparire, nei discorsi, nel parlare sociale e politico, come una parola leggermente svuotata. Quasi inoffensiva. Come “solidarietà”. Come “convivenza civile”. Come “dialogo”.

Cammino per la città. Osservo la vita. Osservo i cittadini. E non mi sento a casa.

La parola cittadinanza mi ha sempre fatto pensare a un luogo aperto. A uno stato che nasce, sulle macerie di una dittatura, dove ognuno potesse finalmente sentire di avere diritti, di essere al suo posto, di essere rispettato. Come lavoratore, come abitante di un quartiere, di un paese, di un pezzo di città, come cittadino.

Un sogno che, per decenni, ha nobilitato la parola “cittadinanza”. Un sogno di democrazia attiva. Capace di contaminare le vite, chiedendo, senza retorica, a ognuno, la testimonianza della propria identità. Lavorativa, culturale, umana. Un'identità fatta di passioni, con la voglia di trasmettersi, di contaminarsi.

Cittadinanza, parola oggi un po’ invecchiata. Parola che qualcuno interroga, nelle università, nei teatri, nei luoghi dell’incontro informale, per capire che senso, oggi, può avere. In altri casi, solo parola virtuosa, abituata a risuonare in bocca a sindaci, assessori, nei dibattiti istituzionali e in quelli del confronto beneducato.

Cammino per la città, osservo il cittadino.

Vedo nelle strade l’uomo, che gira da solo, il “cittadino”, che quella parola se la ride sotto i baffi. La sente e se la fa scorrere nella testa, proprio come i titoli dei giornali sulla lotta politica, lo scontro tra i partiti, le ragioni di principio che di principio non sono. Vocabolari obbligatori. Cammina da solo, e sembra dire che altro non può essere, è troppo difficile essere, non è concesso essere.

Cammino per la città. Non riconosco i cittadini.

E’ successo, pressappoco negli anni '80. Che una signora insospettabile, un po' datata, un po' inglese, ha detto: Fermi tutti. La società non esiste. Esiste l'individuo. E tutti hanno pensato: esagerata!

Però, poco a poco, quella frase abbiamo cominciato a pensarla tutti. Lentamente è entrata anche nelle nostre pratiche di relazione, di rapporto con il mondo. Anche in chi, in pubblico, o nella buona fede della propria coscienza, continuava a ripetersi: esagerata.

Quell’idea, che “società” fosse ormai un concetto troppo astratto. Spesso mistificato. Vero. Paravento per i peggiori interessi. Certo. Oggetto di retoriche oramai insopportabili. Sì.
In tutti un’altra speranza, concreta, che nello spazio e nell'agire del singolo, si aprissero possibilità vere d’innovazione, d’iniziativa, di rischio creativo. E poi un passo oltre.

 

L'idea che il mondo, in fondo, proprio di quello avesse bisogno. Di singoli decisi e determinati. Capaci di perseguire scopi, i propri scopi. Che poi ci avrebbe pensato qualcuno ad armonizzarli. Che poi, un principio regolatore, un funzionamento calibrato del sistema, avrebbe realizzato il miracolo di far sì che il bene di uno potesse diventare, subito, comunque, bene di tutti. Che d’ora in poi, ci si potesse affidare, tranquillamente, alla parola “mercato”.

Mercato. Il mercato diventa Mercato, acquista una maiuscola, diventa spazio capace di ospitare i sogni individuali di libertà, di ricchezza, di competizione creativa, Luogo della liberazione, da tutto e da tutti, da fardelli e orpelli, da vincoli e legacci, da burocrazie, da cappi e cappietti, Libero Mercato. In libero stato. In libero commercio.
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Cammino per la città Osservo i cittadini. E non mi sento a casa.

Guardo i cittadini. Oggi, di cosa si sente cittadino uno?
Cittadinanza è diventato un concetto da declinare al singolare. Molti chiedono una cittadinanza che permetta loro di essere efficienti, operosi, attivi. Di perseguire con la massima precisione e regolarità il proprio progetto di vita. Cittadinanza come garanzia del minimo disturbo, da parte dello Stato, delle Istituzioni, dell'Ufficio delle Tasse, delle regole della strada, delle misure anti-inquinamento. Cittadinanza come condizione di poter vivere così. Sciolti, liquidi, impegnati.

Cammino. Osservo la città e i cittadini.

Strana sensazione. A volte mi è capitato di vedere i miei concittadini, i milanesi, simili alla loro città. Nel bene e nel male. Certi modi. Certe consuetudini. Certe forme. Oggi, al contrario, mi sembra che la città assomigli sempre di più ai suoi cittadini. Alle vite impoverite, spesso frettolose, necessariamente strumentali. Segnate dall'angoscia di prestazione e di presenza. Città che si specchia e prende forma dai suoi cittadini. Si tira a lucido, cerca di continuo vestiti nuovi, segue le stagioni dell'alta moda. Ma ad ogni vestito che lascia, all’improvviso, i buchi, le crepe.

Città che si uniforma, cercando di essere centro di servizi per il cittadino, che più cittadino non si sente. Garantisce gli spostamenti, l'efficienza. Il veloce ritrovo serale. La convulsione delle ore centrali della giornata e la quiete che scende brusca, spessa, nelle serate e nelle notti dei quartieri fuori dai riflettori. Si sente gran brusio di televisori e di computer accesi la sera. Per il resto, gran silenzio.

Cammino per la città. Osservo i cittadini. E non mi sento a casa.

A volte sì sente, all’improvviso, risuonare la parola “cittadini”. Per brevi momenti la città si riconosce. Anche i cittadini: abitanti di quel luogo, di quel quartiere, di quella via. La paura dell’uomo nero, che è apparso all’orizzonte, dell'invasore, dell'occupante, li ha fatti incontrare.

Così la città, una volta porto di mare, si chiude. Edifica sulle coste torri di avvistamento, presidi. S’interroga sul numero d’imbarcazioni in movimento. Erige mura, al suo esterno e al suo interno. Recinti. Cancelli. Comunità chiuse.

Una voglia, sempre più esplicita, di attutire, soffocare, il rumore del mondo e la troppa confusione di questi tempi. Negli eleganti condomini, con nel mezzo il laghetto delle anatre, si celebra la sparizione del mondo.
Osservo la vita. Osservo i cittadini. Percorro la città.

Strana città la mia. Gli incontri, i luoghi caldi, le pratiche inusuali, sembrano sempre più sfuggire il centro. Si annidano in periferia. Nelle periferie geografiche. A volte in quelle esistenziali.

Cammino per le città. Osservo la vita. Osservo i cittadini. E penso lontano.

Pacha, la mia amica nicaraguense, che viene raccontata da me e Pietro Floridia nello spettacolo “La strada di Pacha”, un giorno mi dice: non esiste la città, esistono le città, sono tante come le linee nel palmo della mano, devi conoscerle tutte, percorrerle tutte, e poi sceglierne una.

Penso a Managua, capitale del Nicaragua, la sua città. Città spezzata, distrutta, annientata da un terremoto, ricostruita senza centro. Città ipermoderna. Tutte le condizioni rigorosamente separate. Da una parte, sulle colline, i quartieri residenziali, le magioni, le fortezze, protette da vigllantes armati, corrente elettrica, garitte, torrette e filo spinato. Dall'altra i barrios fetenti, lasciati a marcire nel loro degrado. Abitati dai non possidenti, dai non cittadini. In mezzo, tra gli uni e gli altri, la calle, con i suoi mendicanti, gli sradicati totali, i bambini di strada. Pura escrescenza questi ultimi, spazzatura da smaltire, per cui non si trova mai la discarica adatta.

Penso alle nostre città, alla nostra cittadinanza a pezzi, alla contrapposizione sempre più feroce, anche da noi, di condizioni e di vite differenti, con regole differenti. Penso: Managua nostra contemporanea. Penso Pacha, che nel cerchio dei bambini di strada ricostruisce. Penso alle vite, che nel cerchio si collegano. La città di Pacha, tutta dentro quei cerchi.

Cammino per la città. Entro nei luoghi proibiti.

Mi affaccio al cancello dell'ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Per un attimo torno indietro col pensiero. Provo a immaginarmi quel luogo, quando il cancello era chiuso. Quando da lì non si usciva. O si usciva, come spesso dicono qui, solo coi piedi davanti. Dopo una morte, un’autopsia, un funerale manicomiale.

Manicomio. Luogo quasi classico della perdita del nome, dell'identità, dei vestiti personali. Istituzione totale. Lì' dentro, nell’ex manicomio, oggi, un gruppo di persone costruisce comunità. Tra impresa sociale e impresa culturale. Tra recupero e sperimentazione di nuovi modelli di lavoro e di relazione. Nell’esperienza dentro tutti: operatori, volontari, ex degenti, teatranti. Dentro l’esperienza pratiche, da sperimentare. Dove il pensare e il fare ritrovano un rapporto. Così come il pensare e l'abitare.

La voglia di sostituire al sentito dire, alle frasi a priori, alla mentalità binaria del si/no, favorevole/contrario, il valore di un’esperienza che cerca nel suo farsi il proprio senso. E lo interpreta come categoria mobile e reattiva, incarnata nelle vite delle singole persone.
Voglia di rigenerare e rigenerarsi.

Da una città dentro la città osservo la vita. Osservo i cittadini. Chiedo cittadinanza.

La città ogni tanto si affaccia. Qualcuno, sempre di più, si ferma a mangiare al ristorante. Bello, creato dove una volta c'era la camera mortuaria dell'ospedale. D'estate una bella folla invade i prati del parco dell’ex manicomio, sopratutto la sera, quando vivono di concerti e di spettacoli teatrali.

Il cancello si è aperto. Adesso queste pratiche, queste persone, richiedono cittadinanza. Di essere considerate come parte della città, di essere riconosciute come valore, non sopportate come il minore dei mali. Non guardate con il paternalismo che si riserva ai generosi, ai volonterosi. Non trattate con fastidio o sufficienza. Quella richiesta di cittadinanza, piena, apre una sfida con la città. Divide le coscienze. Ancora oggi, passeggiando per il quartiere, si sente nell’aria un atteggiamento ambivalente su quello che succede “là dentro”. Simpatia, rifiuto, indifferenza.

Molti ormai assuefatti a vedere nell'altro, nel suo bisogno, nella sua richiesta, sopratutto una minaccia. Che i soldi sono pochi, si sa. E non si possono dare a tutti. A cose che non servono.

Da una parte, sospetto per chi chiede. Per gli anziani, che costano molto, per la cultura, che non produce, per chi soffre di disagio, che sarà anche un po’ problema suo, per i migranti, che non riescono a programmarsi i flussi, per l'educazione permanente, che è un lusso. Tutta roba “politica”, così si dice.

Dall’altra parte, pratiche, che assumono il lutto e lo trasformano, senza piagnistei. Che trasformano la stessa parola cittadinanza in una dimensione da inventare. La città delle separazioni, dei ghetti, dorati o non dorati, della funzionalità economica come unico parametro degli interventi, non sa bene che rispondere.

Inventare cittadinanze, attraverso le pratiche. Per la prima volta mi viene in mente la parola teatro.

Cammino per la città. Osservo la vita. Osservo i cittadini. Raccolgo i racconti.

Entro nei luoghi e parlo con le persone. Raccolgo vite, biografie, aneddoti. .Magici, quasi tutti i racconti. Non perché sempre raccontino lo straordinario. E' il normale, il quotidiano, che dentro ai racconti cambia di segno. Lentamente si riannodano i fili. Punti dove la propria vita si è incontrata con quella di altri. Momenti di relazione.

Racconti. Un linguaggio nuovo che faticosamente si fa luce nella bocca, rompendo le genericità, le espressioni consolidate, gli stereotipi attraverso cui ci presentiamo e facciamo finta di ascoltare il mondo.

Sto bene. Sto male. Che fai? Dove lavori? Famiglia? Morale?

Lingua nuova, che apre nessi e rimandi, a volte sconosciuti anche a chi racconta. Chiedo della città, a volte. Lì, il racconto si fa più complicato. Gli anziani ne parlano come si parla di una gran bella donna, amata tanti anni fa, di cui si è perso l'indirizzo e che non si sa più come rintracciare. I giovani provano a pensare città, ma molto spesso si ritrovano immediatamente in una stanza angusta. La cameretta del figlio. La stanza dello studente. Il monolocale del single. Città è cosa che non c’entra con vita, è solo quello che sta attorno, lo spazio ostico e difficile da percorrere, tra il proprio io e qualcosa che quasi sempre si nega.

 

Cammino per la città. Ascolto i racconti. Il racconto crea case.

Tra chi chiede e chi risponde, si crea una relazione particolare. Soprattutto se il tempo è lungo, se non si guarda l’orologio, se l’intervista non ha una struttura troppo fissa, se il racconto s’inserisce all’interno di un pezzo di vita condiviso. In una casa, in un luogo comunque abitato
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Si comincia a prestare attenzione. A se stessi, per chi parla. La propria vita interrogata di nuovo, con curiosità. Per chi ascolta, invece, la necessità di un’attenzione grande, fino a quasi scomparire dentro il racconto dell’altro. Senza porsi immediatamente un fine pratico, di utilizzabilità di quel racconto per una ricerca, per un progetto, per uno spettacolo.

Attenzione, attitudine dimenticata. Due settimane fa un ragazzo di diciannove anni, con cui sto parlando di scuola e di compagnie, mi dice all’improvviso: è la prima volta che vedo un adulto che è due ore e mezzo che mi sta ascoltando. E non lo devo neanche pagare.
Un’altra volta un ragazzo, alla fine di un lungo parlare collettivo, mi ha detto: “Mi sudano le orecchie”.

Cammino per la città. Ascolto i racconti. I racconti diventano storie.
Vite, che nel momento in cui si raccontano, si scoprono, nel senso più letterale del termine. Si leggono in maniera diversa dal passato. Non so esattamente cosa succede. Però c’è un momento in cui avviene il salto. Che, nel racconto, l’estetica di se stessi smette di porsi al centro. Che il nostro normale, celibe, infinito monologo, funzionale e psicologico, s’interrompe.

Che nei racconti la confessione dell’intimo, non viene esibita, formattata, come nei veloci messaggi mediatici che ci si scambia in una chat o nei social network. L’intimo non è esposto, ma delicatamente accennato. Non vive più da solo, ma trova posto all’interno di una storia più grande, l’accompagna, la precisa, senza mai violentarla, senza frastornare l’ascoltatore.

In quell’esperienza d’ascolto anche la relazione cambia. Per quanto poi ci si perda, o non ci s’incontri, tu sai che tra te e quella persona che hai ascoltato, il modo di vedersi, di parlarsi, non sarà mai eguale a prima. Una cellula, si è rigenerata.

I racconti, per un po’ restano patrimonio segreto, tra chi racconta e chi ascolta, Poi chiedono di aprirsi al mondo, per trovare il proprio senso, di diventare storie. Nella curiosità di incontrare altre storie. Di sapere cosa hanno detto quelli che, anche loro, stanno vivendo una condizione simile. Quel cerchio stretto, dove la parola del testimone si è incontrata con il primo ascoltatore, si allarga, perché molte nuove voci, vite, testimoni, ne entrano a far parte.

Cammino per la città. Le storie ci osservano. Osservano la vita. Osservano i cittadini. Lo spazio si allarga.

Le storie cominciano a osservare il mondo. Dove prima c’era confusione, immagine della vita come flusso tumultuoso e indistinto, o come eterna ripetizione del conosciuto, o come puro gioco di superfici riflettenti, adesso, nelle vite diventate storie, si cominciano a leggere gli atti, gli snodi, le sorprese, gli smarrimenti, le’invenzioni.

 

Il cerchio delle storie, delle narrazioni orizzontali, comincia a diventare un luogo da cui partire per cominciare a ri-abitare la vita nella sua complessità, dando voce alle emozioni e alle condizioni rimosse. La città ancora lontana, a tratti. A tratti la sottolineatura della propria differenza. Del proprio essere comunità diversa.

Cammino per la città. Racconto le storie. Le vite invadono il mondo.

Il rapporto, nato dal nucleo primario dell’ascolto, ha creato una prima comunità di condivisione, dell’esperienza e della condizione. Adesso è pronto a restituire la vita e le emozioni di questa comunità, a un primo pubblico, un cerchio allargato, fatto dai simili per condizione, per vicinanza esistenziale e personale.

Un nuovo cerchio si riunisce, per ascoltare i racconti diventati storie. Per farlo, spesso s’incontra nei luoghi della vita, non nei teatri, varca porte fino ad allora precluse, visita spazi e ambienti inusuali, partecipa a un rito in cui la comunicazione del vissuto personale dell’attore ha altrettanto valore che la comunicazione scenica in senso stretto.

Però, pure questi cerchi, a volte, corrono il rischio di implodere. Rassicurano, creano un momento di calore. Ma, anche, lasciano l’amaro in bocca, la sensazione che la città, tutto quello che vive al di fuori della porta, del cancello, dei locali dove si svolge il rito dell’incontro, continui a guardare a distanza, ignori la richiesta di guardarsi allo specchio, di riflettere su se stessa, di confrontarsi davvero con quelle vite e quelle esperienze, di rispondere a una richiesta di cittadinanza, che da quelle condizioni viene.

Città, che dovrà trovare un momento e un luogo per farlo. Uno di quei luoghi, nelle nostre immagini più antiche, è una piazza. Oppure un teatro. Meglio, un teatro che assomigli a una piazza, luogo dell’incontro e del riconoscimento.

Cammino per la città. Ascolto i racconti civili del teatro.
Il teatro, com’è oggi. Un luogo ambiguo, che vive la tentazione sempre più forte di trasformarsi in pura succursale dell’entertainment globale, offerto agli spettatori-consumatori. Che a loro volta vanno a teatro gratificati, “consumatori eccellenti” di un prodotto d’eccellenza.

Altre volte luogo in cui la domanda sull’arte, e sullo spazio dell’arte nel nostro tempo, continua a vivere. Luogo che, negli ultimi anni, spesso si è riempito anche di teatro civile. Di spettacoli, a volti straordinari, capaci di rimettere in gioco la memoria del paese, di denunciare sfregi e ingiurie, passato e presente, di chiamare gli spettatori a ragionamenti etici e responsabili.

Funziona. Funziona talmente bene che, ultimamente, anche scrittori e giornalisti, grandi scrittori e grandi giornalisti, hanno capito che lo spazio del teatro è spazio vitalissimo di comunicazione. Però c’è un punto in cui la ricerca del teatro civile sembra fermarsi. Con il rischio di trasformarsi, incarnarsi, in prodotti a volte insidiosamente vicini ai musical e alle grandi performance one man show dell’entertainment.

Cammino per la città. Vedo gli spettatori. Penso a loro come comunità.

Civiltà del teatro. Avere il coraggio di definire lo spettatore come una condizione. Interrogarsi su di essa. Pensare che quella condizione, ogni sera, crea una comunità. Provvisoria, occasionale all’inizio. Ma che quell’essere comunità del pubblico, non possiamo ignorarlo. E che ci chiede risposte.
Provare a pensare che pratiche artistiche nuove possono cominciare a incarnarsi anche in atti e rapporti diversi con il pubblico. Perché ognuno di noi, se rimarrà sempre e comunque solo numero, audience, potrà ascoltare a teatro cose mediocri o cose sublimi, ma, uscito dal teatro, non sarà comunque in grado di diventare attore di una testimonianza differente.

Cammino per la città. Entro in teatro. Vedo gli spettatori. Penso a loro come cittadini.

Teatro dello spettatore. In cui al centro ci sia la presenza di chi ha deciso di vivere il rito teatrale. Dove lo spettatore venga spinto ad agire, a condividere pensieri e storie. Mettendoci il suo. Lavorare perché un racconto sia generatore di una foresta di storie, di riferimenti personali, di pensieri, nella testa di ogni spettatore. Pensieri, annotati nella memoria personale, a volte scritti su carta, condivisi con chi sta più vicino.

Teatro dell’ascolto, del rapporto con condizioni e vite. Nel teatro dello spettatore, la storia di uno diventa immediatamente storia di tutti. Non in astratto. Attraverso atti concreti di relazione e d’interazione con quella storia. Nessun tema considerato “specifico”.

Nessun teatro delle categorie: dei bambini, delle donne, dei portatori di handicap, dei carcerati, degli adolescenti problematici. La storia di ognuno, per quanto marginale sembri all’inizio, conquista il centro dell’attenzione. Chiede al pubblico cittadinanza. Ma per farlo, per essere credibile, deve trattare il pubblico stesso come comunità.

Questa è la scommessa di “La strada di Pacha”, spettacolo in cui io. Pietro Floridia e tutto ITC-Teatro dell’Argine, abbiamo esplorato per la prima volta i lidi e i territori di un teatro dello spettatore. Scommessa che, non a caso, ci è nata dentro dopo tanto lavoro teatrale nelle comunità. Nel rapporto con gli stranieri, che spesso, oggi, non hanno cittadinanza. Nel rapporto con paesi extra europei, dove il concetto di cittadinanza s’incontra con la difesa dei diritti delle comunità

Ultimo pensiero su teatro e cittadinanza. Saluto alla città.

Questo teatro, attraversato dalle storie, dove il pubblico si riconosce anch’esso come comunità di spettatori, mi ricorda davvero una piazza. Quella piazza antica, che stava dentro a una città, il cui nome era polis. Dove discutere delle vite, dei beni comuni, del respiro della città. E dove il pensare, il preparare, l’allestire, il mettere in scena, l’assistere al teatro, era un atto della cittadinanza.

Sono molto affezionato a quella visione. Che oggi va di nuovo esplorata, in forme diverse.
Perché oggi la città non è più una. Sono tante. Tutte chiedono una cittadinanza. Teatro come luogo di costruzione delle cittadinanze e delle appartenenze.

Nell’idea che una cittadinanza di tipo nuovo, che ci coinvolga davvero tutti, non potrà che basarsi sul riconoscimento delle differenze, delle diversità, delle condizioni limite, dei punti estremi della vita rappresentati dall’infanzia e dalla vecchiaia, del valore d’investimenti non immediatamente produttivi, di tutte quelle pratiche che, a partire dal cerchio più piccolo, ricostruiscono prima la persona e quindi il suo rapporto con il mondo.

Teatro come luogo delle relazioni rinnovate. Teatro delle cittadinanze.