Il teatro d’intervento politico. Le drammaturgie. Posso solo riferire una mia ipotesi di lavoro. Modesta e parziale. Chiede di essere integrata o radicalmente capovolta.
Per questo posso permettermi di procedere per schemi.

Il teatro d’intervento politico:
-non da risposte, formula domande.
-si definisce attraverso il processo.
-ricostruisce un pubblico
-crea rete.

Punto uno: non risposte ma domande.

Il “politico” da sempre dà risposte. Definita la strategia indica la tattica.
In drammaturgia questo si traduce nel dare “un messaggio”. Non ho alcuna risposta da dare quando scrivo. Non io, non da solo. Sono mosso da passione e da insofferenza. Da domande che ho bisogno di confrontare.
Non devo riscattare la “memoria dall’oblio”. Non devo essere punto di riferimento
per “l’opinione pubblica democratica”. Questo significa molto lavoro. Significa che un “teatro d’intervento politico” apre uno scenario d’ipotesi e di possibilità. Richiede di essere studiato. Richiede di incontrare tante persone toccate nella carne. Richiede di essere formulato come un’ipotesi che dovrà essere passata al vaglio da tutte le comunità che dovrà incontrare. La prima è quella degli attori.

Un esempio, in un progetto per i centri sociali autogestiti milanesi il tema che io e Roberto Corona si voleva esplorare era quello delle periferie.Avevamo in mente i quartieri degradati, la mancanza di servizi sociali, le devianze.
Ai giovani dei centri sociali con cui lavoravamo tutto questo non interessava. Volevano parlare delle “loro periferie”. Del sentirsi randagi in una città. Della bellezza e insieme della disperazione insita in quella situazione. La drammaturgia ha dato voce a quella domanda, non all’ipotesi di partenza.
Avere un’ipotesi di partenza è, delle volte, avere già consumata tutta la curiosità dentro di sé. Se l’affrontare uno “scenario politico” non donerà a noi che scriviamo maggiori notizie, scoperte, messa in crisi delle idee precedenti, è probabile che il lavoro arriverà morto anche al pubblico.
Questa è la deriva dell’ultimo “teatro politico” che abbiamo avuto la sfortuna di vedere.
Quando uno spettacolo non aggiunge niente di nuovo per chi è già d’accordo e non sposta di un millimetro la sensibilità e la coscienza di chi non è d’accordo.
Riti autoconsolatori, spesso.

La prima comunità è quella degli attori, del musicista, dello scenografo che lavorano con te. Mi risulta indigesto pensare che debbano “rappresentare un’idea”. Sono noiose, di solito, le idee rappresentate.
Il primo atto politico diventa allora la messa in gioco del senso, delle visioni, in un processo collettivo.

La drammaturgia si troverà di fronte ad una molteplicità di stimoli, di punti di vista.
Bene che questa eterogeneità si trasformi in domanda all’interno del gruppo.Che nessun “messaggio” dipani il nodo. Se la domanda resterà viva all’interno del gruppo potrà forse essere possibile che rimanga viva anche con i pubblici che incontreremo.
Attraverso i contributi di tutti i partecipanti al processo creativo, la drammaturgia si troverà di fronte al precipitare di materiali eterogenei: poesie, pezzi di giornale,
brani di diario, confessioni, raccolte d’immagini. Questa varietà di materiali non è sintomo di un processo di tipo dilettantistico, ma del precipitare dei modi d’essere e di esprimersi del contemporaneo, è piena dell’impudicizia della vita, di segni che interrogano la forma teatrale, la forzano, la tirano all’estremo. Un’occasione affascinante.

In questo processo spesso sarà necessario rinunciare alla metafora. Per un teatro d’intervento politico, oggi, la metafora non mi sembra lo strumento più adeguato.
Forse oggi non è tempo di metafore. Perché cadono le bombe in testa. E la metafora allontana, storicizza, è già risposta al disagio e al degrado. In Italia poi una drammaturgia evanescente non vede l’ora di nascondersi dietro metafore elevate ogni volta che c’è da sporcarsi le mani. Appena c’è un pericolo di guerra qualcuno fa Antigone. Con nobili e alte motivazioni.

Punto due: il processo.

Una delle cose che più mi sconcertava nel vecchio “teatro politico” era il “processo”, molte volte assolutamente simile a quello del “teatro borghese”. A me questa ambiguità non va più bene. Esattamente come in “politica” non è più vero che il fine giustifica i mezzi, sento necessario vivere il processo come parte costitutiva dell’atto politico
che attraverso il teatro cerco, talvolta, di fare.
E questo processo oggi ho voglia che non si risolva più, solo e soltanto, nel vuoto pneumatico delle sale prova. Perché entrare in “scenari politici” ha forse bisogno
di uno spazio dato “all’inchiesta”, al confronto con chi di quella condizione paga, insieme a noi, le conseguenze.
Mi piace guardarmi attorno e chiedermi: quali comunità possono dividere il mio percorso? Quali testimoni mi devono accompagnare?
Quando parliamo di comunità vengono solo in mente situazioni reclusorie: tossici, carcerati, oppure comunità molto isolate geograficamente o culturalmente. Ma noi normali? Tutti senza comunità di riferimento? Sicuri che condizioni ed esperienze non uniscano anche chi ideologicamente si legge come unico, particolare, lavoratore autonomo, possessore di partita IVA?
Se parlo dell’informazione ho bisogno di parlare con-ai giornalisti. Se parlo di un call- center ho bisogno di parlare con chi lavora lì dentro. E non è un atto politico imparare di nuovo a leggerci tutti dentro una condivisione di destini e d’esperienze?
Non è che molta drammaturgia si crogiola, fuori tempo massimo, con la “solitudine dell’uomo contemporaneo”?
Allora la comunità esistente, ma anche la comunità “virtuale”, la comunità che non sa di esserlo, può diventare un punto di riferimento importante per il processo, un interlocutore fondamentale per la raccolta di certi materiali, un pubblico privilegiato nel momento dell’elaborazione e della costruzione dello spettacolo stesso.

Punto tre: il pubblico.

Inventare un nuovo pubblico. Un pubblico che vada a teatro come si va in una piazza, un “agorà”, all’interno della quale si discutono i destini della città, della “polis”. E’ stato questo una volta il teatro? Sembra di sì. Fatto sta che adesso il teatro non lo è più e che in particolare la sala teatrale ha accumulato sopra di sé vizi e vezzi propri non di una piazza ma di un appartamento angusto con un tinello stucchevole.
Ricostruire un pubblico non vuol dire genericamente portare a teatro “i poveri”, gli “emarginati”, “gli esclusi”, ma ricreare in primo luogo il senso dell’importanza di un presente in cui assieme si parla di cose che ci riguardano, in cui si va ad incontrare non la prestazione virtuosa di un artista, ma una comunità che ha necessità di dire per avere risposta.
E credo che questo sia possibile se il processo stesso ha cominciato a “creare comunità”, agendo come un virus, fuori e contro il mercato dell’intrattenimento, per contaminazione, coinvolgendo soggetti a partire da necessità condivise.
Si tratta di ritornare a periferie non puramente geografiche: luoghi strani, dove invece di celebrare le liturgie dell’ufficialità e del potere si festeggia il ri-trovarsi d’attori e spettatori per condividere qualcosa a cui da soli non possiamo dare risposta e per dare vita ad ulteriori contaminazioni e provocazioni.
Si tratta di andare ad incontrare le comunità in luoghi segnati dal loro lavoro e dalle esperienze, di ricreare in quei luoghi centri d’energia che possano riconnettersi a tutto quello che ci sta attorno, “teatro compreso”, senza subire la logica assoluta e tendenzialmente totalitaria che si prefigura

Punto quattro: la rete
Necessità del teatro d’intervento politico è che le esperienze si relazionino l’una con l’altra, dandosi reciprocamente forza, costruendo connessioni di senso. Necessità di non costruire mitologie a partire dal lavoro di un singolo gruppo o dall’importanza della singola esperienza. Necessità di mischiare le comunità d’appartenenza, sia esse riguardino gruppi d’artisti sia esse coinvolgano pubblici attenti e privilegiati. Da questo punto di vista rete è parola importante, indica un nuovo tessuto che collega artisti, comunità, spettatori-complici. Indica anche l’intento politico di porre domande decisive sul ruolo dell’arte e dell’artista nelle situazioni che vivremo.
Non solo quindi la scelta di un’autostrada informativa privilegiata, ma la costruzione di una pratica di rapporto fatta d’azioni e relazioni, la nervatura che sostiene il nascere di un agire sotterraneo ma non emarginato, capace di coltivare il singolo processo e occasione d’incontro e nello stesso tempo pronto ad inventare di continuo nuovi spazi e territori.

Era per me difficile parlare in senso stretto di “drammaturgie” del teatro politico, un oggetto, un tema, che chiede di essere ridefinito nei modi e nelle pratiche, per evitare madornali fraintendimenti.
Credo che il compito della drammaturgia sia, parlando di questo tema, pensarsi non solo in riferimento ad uno spettacolo, ad un evento, ma, più complessivamente, come arte e dinamica di tutte le relazioni che un teatro d’intervento politico porta con sé, dal suo nascere al suo vivere nel mondo.
Gianluigi Gherzi.