Io sono un figlio
e non ho la memoria dei padri.
Non ho la memoria della fabbrica dei padri.
La scopro per brandelli di racconti, di storie.
Eppure so che è lì, che devo tornare,
per capire il grande sogno della fabbrica,
devo tornare agli operai del dopoguerra.
Proprio non riesco a immaginarli.
Eppure, uno sì, Albino, di cui mi raccontava mio nonno.
Lui, sì, Albino, lui, dopo dopo la guerra,
dopo dopo le deportazioni, dopo dopo il fascismo,
Albino, lì, davanti alla fabbrica,
la fabbrica che gli operai avevano difeso durante la guerra,
fabbrica, carne della loro carne,
.
Albino guarda la fabbrica
che adesso sa di nuovo,
è forte, ingrandita,
sembra un miracolo,
sfavilla contro il cielo limpido,
le linee dritte, perfette, matematiche,
dei capannoni, delle vetrate,
fabbrica, fabbrica madre, fabbrica amante,
chiamami con te,
fammi superare i tuoi guardiani,
fammi oltrepassare la tua soglia,
accoglimi, ripuliscimi, fammi nuovo,
toglimi la fame della guerra
e la puzza di merda della campagna
e il pianto dei morti,
rimodernami.
C’è posto? Davvero c’è posto anche per me?
Col batticuore all’Ufficio Assunzioni, pu pum superato,
e poi alla visita medica pu pum superata
e poi verso i reparti
e poi davanti alla macchina silenziosa.
Lavorano tutto attorno gli operai
e non c’è rumore e non c’è parola
perché la fabbrica è tutta una grande canzone
è tutto un grande respiro, un respiro solo
che dice:
qui è il futuro, qui la vita nuova che si prepara
e scalda il rumore delle utilitarie che comprerai
e il ronzio della televisione che ascolterai
e i conti dei ristoranti in cui andrai
e brinderai con gli amici.
Silenzio, adesso, zitto, che la macchina ti guarda
e ti chiede di cambiare il tuo respiro,
di modellare il tuo corpo perché il pezzo esca preciso
e nel tempo esatto
e l’ingegnere passando tra le linee
possa dire piano piano sì
muovendo lentamente il capo
su e giù su e giù
e il capo reparto guardarti e dirti
figlio mio, figlio di questa linea, figlio di questa fabbrica.
Padri, i padri nel sogno del dopoguerra
che avete visto quel sogno invecchiare con voi
con i vostri primi capelli bianchi
con le chieriche che lentamente si formano
qui, al centro della testa,
perché la fabbrica è madre e amante
e richiede
e lascia segni sul corpo
e irrigidisce lo sguardo e lascia un dolore sulle spalle
e una fitta sui reni,
dove il ricordo dei pesi alzati
non finisce con l’orario di lavoro.
Ma cosa punge? Cosa fa male?
Perché quel respiro esatto
quel ritmo comune
non serve più come un tempo a tingere il cuore
di rosso speranza, di rosso futuro, di rosso d’amore.
Perché quel respiro esatto si trasforma all’improvviso
in numero puro, in pura sequenza d’operazioni.
Han cambiato tutto.
Han chiesto qualcosa a te?
No?
Peccato, un così bravo operaio
con quelle mani d’oro.
Han chiesto qualcosa a lui? Al caporeparto?
No? Neanche a lui?
Neanche a lui che conosce ogni macchina come le sue dita,
ogni vite e bullone come i pori della sua pelle?
Non ci guardano più?
Non ci chiedono più?
E il sogno che ci univa tutti?
Il sogno della fabbrica madre,
madre di un’Italia ricca, bella, umana.
E delle volte Albino si guarda
e si sente il collo
e si sente come il cane quando lui lo lega la sera,
lì. al palo vicino all’orto,
il cane che tira,
il collo stretto dalla catena troppo corta che Albino ha preso per risparmiare.
Si sbuccia il collo, fa arrossamenti, fa ferite, e poi piaghe, e poi le mosche sopra che pungono,
e sopra la ferita la catena.
La catena, è arrivata la catena di montaggio
Il montaggio si fa in catena
E il caposquadra è diventato sorvegliante.
E non ha più la faccia del padre
ma dell’esecutore di ordini.
E quel rumore che prima era respiro e canzone
Sale e diventa     frastuono sordo
Dove si perdono le voci e vi perdete voi, padri
E vi chiedete…che vita è e con che sapore,
amaro in bocca e vi chiedete
così…per tutta la vita? Madre, dove sei?

 

E vedervi uscire con la testa incassata nel collo
e il collo incassato nelle spalle
e appena varcata quella soglia
che avete attraversato da giovani
E adesso riattraversate da vecchi
Quel vostro gesto…
il gesto di chi si toglie un peso dalle spalle
di chi finge un respiro più libero
Di chi adesso ma solo adesso può spezzare il silenzio
e fare le battute e guardare le donne
e scherzare su Coppi e la Giuventus
e che adesso ma solo adesso può essere.

Padri persi raggiunti adesso da strani figli,
cresciuti diversi da noi,
figli che adesso arrivano da terre lontane
le terre del pomodoro e del basilico
arrivano e posso immaginarli lì
nella Stazione Nuova di Torino
che mostrano il cartellino neoassunto Fiat
che serve, serve per potere dormire nelle sale d’aspetto
che se no sei barbone puro
e te la devi sfangare al freddo
al freddo duro e senza pietà.
E loro arrivano
e sfornano i pezzi
proprio come si raccolgono i pomodori
E il sogno è uno solo: fatica in cambio di denaro.
Freddo delle soffitte e degli abbaini in cambio di denaro
e sere di solitudine nei viali deserti
nei bar col neon in cambio di denaro
Ma appena possibile
meno fatica e più denaro
che la fabbrica è nemica e il lavoro nemico
e rabbia rabbia rabbia rabbia
e guardiani presi a calci in culo
e linee bloccate e ferro che batte contro ferro
e casino.
E gli operasi vecchi che guardano
e condannano e capiscono
e condannano0 e capiscono
e il fiato lungo del 68
che porta altri figli fuori dalle fabbriche
studenti, pieni di barbe e volantini.
Figli, che vi vedevano adesso
vedevamo le vostre tute blu uscire dalle fabbriche.
Vi guardavamo con reverenza e timore
Voi padri grandi, immensi
affondati nella radice della vita
con parole grandi che chiedevano il potere
il potere a chi lavora
E noi sì certo
voi dovete dirigere tutto.

Padri vi abbiamo ritrovato
nel sogno del mondo capovolto,
del tutto e subito, adesso,
della vita nuova,
degli aumenti e dei diritti uguali per tutti.
Padri grandi, padri salvatori,
radiosi, oltre il nostro disagio
oltre il malessere di noi,
piccoli figli borghesi,
impauriti, vergognosi delle nostre origini,
padri, nostra fiducia, nostra religione
parola grande salvifica e nostro sogno
che prometteva paradiso e rivoluzione.
Mani degli operai, stringere le mani dei padri operai
svanire in quell’abbraccio ruvido
che sapeva di forza e di giustizia
D’ideale e di concretezza.
Concretezza, accidenti, con-cretezza…
I padri cominciavano a dire: concretezza
che le piazze a poco a poco si erano svuotate
lasciandosi dietro una striscia sottile di sangue,
di corpi dilaniati, sfracellati dalle bombe,
Brescia della Loggia
E i padri dicevano concreti
mantenere la calma difendere l’ordine e la Repubblica…
è come nella resistenza
con-cretezza lotte responsabili
responsabilità nazionale
il nemico è nero e potente
concretezza, ragazzi, il tempo è duro
disoccupate le strade dai sogni
concretezza stabilità
e noi che ci sentiamo all’improvviso
fragili, abbandonati,
costretti a una maturità non voluta,
a una maturità non maturata
e le facce dei padri s’indurivano
e di nuovo un dito grande si alzava
a rimproverare, ad ammonire, a giudicare
diceva irresponsabili, voi, senza storia e senza radice,
poveri untorelli,
voi, comunque e sempre piccolo borghesi
anche quando già facevamo il lavoro nero nelle officine,
voi, con troppi sogni e troppi bisogni
e desideri troppo grandi
per i vostri gesti così piccoli.

 

 

Ammonivate e noi si perdeva centro
e ci si spostava lì sulla linea del margine, prima,
oltre quella linea poi, oltre quel confine
che ormai ci divideva: due mondi separati,
distinti, sospettosi, impauriti,
impauriti voi del nulla che in noi vedevate
impauriti noi della vostra mano paterna
diventata ormai troppo pesante
e che ci chiedeva di essere solo la vostra continuità
oppure di non essere
fino a quando il bastone dei padri
è caduto sul petto dei figli
e il bastone dei figli
ha colpito il petto dei padri.
Solo silenzio, adesso, e odio trattenuto.
Conviviamo nelle stesse case
contrattiamo la sopravvivenza
ci scambiamo rade strette di mano.
Padri, addio,
comincia la nostra storia precaria.

Milano, 6 maggio 2003