Uno
L’intervento di Oliviero Ponte di Pino ha avuto il pregio di porre la questione in termini
diretti ed essenziali. Fine del nuovo teatro?
C’è stato coraggio in questa domanda. E’ stata una domanda a livello alto, senza ricadere
in un copione fin troppo conosciuto fatto di rimostranze, vittimismi, recriminazioni, auto-
giustificazioni.
Però a quel termine, “nuovo teatro”, vanno messe le virgolette. Perché quel teatro nuovo
non era più, da tempo. Né per il tipo di pratiche, spesso tutt’altro che buone, né per le
scelte artistiche.
Intendiamoci: “nuovo”, non è una parola che amo. E’ parola abusata, ricorda molto
l’incessante e sfinente succedersi delle tendenze, dei trend, si accoppia spesso con l’altro
termine che di frequente appesta le discussioni: “emergente”.
“Nuovo teatro”, come termine, è finito per significare un’altra cosa. Teatro “marginale”,
destinato a raccogliere le briciole dell’intervento pubblico, abbandonato nella sua nicchia di
auto-commiserazione e auto-gratificazione
Due
A molti, in passato, il teatro ha davvero cambiato la vita. E’ stata una tempesta che,
arrivata, ha messo in discussione tutto. Certo si studiava, da attori, da registi, in quella
grande università informale rappresentata più dai seminari che dalle scuole classiche,
mettendo insieme, ricomponendo all’interno di sé, spunti e suggestioni diverse. Ma in
gioco c’era più di una formazione artistica astratta, c’era il rapporto col mondo, il rapporto
tra arte e mondo, il confine tra vita e linguaggio. Queste le domande che hanno
accompagnato la nascita del nuovo teatro (qui le virgolette non le uso), come fenomeno
esteso. Queste le domande alla base della stagione dei teatri di base, fino allo “storico”
convegno di Casciana Terme del 1977.
Una generazione di teatranti si ridefiniva antropologicamente, culturalmente,
artisticamente, in rapporto ai grandi temi che attraversavano quel mondo: la crisi della
politica e della militanza, la scoperta del corpo, il senso della creatività, il rapporto con la
comunità.
Tre
Acqua passata, certo. Ma da almeno una di quelle domande non si può prescindere
nemmeno oggi: è la domanda che vede la vita di un nuovo teatro realizzarsi nella scoperta
di nuove forme di relazione con il pubblico e nella creazione di comunità teatrali.
Acqua passata. Ci aspettavano anni sfinenti, di contrapposizioni sterili, tra tendenze.
Prima terzo teatro contro post-moderno, poi il gioco “dei gruppi emergenti”, poi più
seccamente, l’individuazione dei “cavalli di razza” su cui puntare tutto e le politiche di
cooptazione all’interno della grandi istituzioni.
In tutto questo i teatranti spesso alla finestra, a lasciarsi definire da altri, spesso complici, a
cavalcare le onde favorevoli, quasi sempre depressi.
Quel teatro rimaneva nuovo solo per definizione burocratica-amministrativa. Nel tentativo
di sopravvivere riproponeva spesso tutto il vecchio: cordate, scambi, protezioni,
corteggiamento sfrenato del critico, difesa delle roccaforti.
Il pubblico, il mondo alla finestra. Il pubblico che lentamente si stanca di un’incontro che
non è più vitale, si stanca dei linguaggi auto-referenziali, si stanca del narcisismo del
segno.
Intanto il postmoderno va in crisi in tutto il mondo, e in tutte le arti, ma il “nuovo teatro” non
se ne accorge. Intanto il pubblico, sempre più condizionato da stilemi e modelli televisivi,
cerca comunque di resistere. Elabora ed intercetta un bisogno di narrazione, di coscienza
civile, e ne fa il fenomeno più significativo dell’ultimo decennio.
Fenomeno contraddittorio. Non esistono più gruppi. Esistono nomi. Vendibili in
proporzione all’audience, al richiamo esercitato. Fine dei gruppi. Ma il nuovo teatro era
nato anche e sopratutto come teatro di gruppo.
Quattro
La storia non finisce. Il postmoderno lascia il posto alla grande depressione. I quadri,
organizzativi e artistici del “nuovo teatro”, si trovano di fronte, come prima, più di prima,
alla politica feroce dei tagli. In parte reagiscono tentando di diventare più saldamente,
istituzione. In parte scommettono sulla creazione di “nuovi cavalli di razza”, con cui
recuperare rapporto col pubblico e sopratutto coi media. Qualcuno lascia, abbandona.
Alcuni capiscono la natura della situazione, ma la sensazione dell’impotenza è fortissima.
Cinque
Destra, sinistra. Questo ambiente è tradizionalmente “di sinistra”. Una sinistra spesso fatta
di ricordi, di rimpatriate, di auto-celebrazioni. Una sinistra a cui però sfugge il 2001, il
movimento no-global, e che, nel caso migliore, legge i fenomeni emergenti di razzismo, di
uscita dallo stato di diritto, di corruzione strutturale, con l’arma, nobile ma spuntata,
dell’indignazione civile. La vicinanza alla sinistra per il “nuovo teatro” diventa più un fatto di
complicità culturali, generazionali e di conoscenze che altro. Il dialogo avviene sopratutto
partendo dalla necessità di difendere o conquistare qualche roccaforte. Confronto vero su
un’altra idea di teatro, di cultura, di arte, non se ne vede.
Cinque
Rispetto merita chi, in questi tempi, difende le esperienze fatte. Pratiche spesso ventennali
o trentennali. Chi, all’interno dell’istituzione teatrale, cerca di portare qualche
ragionamento o ipotesi nuova. Ma che alla fine, come fa notare l’articolo di Oliviero, si
trova a fare i conti con la sconfitta politica, culturale e antropologica della “sinistra”.
Fine del nuovo teatro? Verrebbe proprio da dire si. E invece no.
Sei
Togliamo di mezzo le parole inutili: nuovo, giovane, emergente, civile.
C’è un teatro, registi, operatori, che oggi affronta di nuovo la questione del pubblico, la
questione dello “spettatore”.
Cambiato il pubblico. Seriale, fatto da individui, non da comunità. Difficile scoprire
situazioni che, al di là degli spettacoli offerti, delle stagioni, dei cartelloni, siano punti di un
movimento culturale, o, più semplicemente, di un incontro, di uno scambio.
Cambiato lo spettatore. Ridotto alla funzione di puro fruitore. Non succede solo nel teatro.
Succede anche rispetto alla politica, alla città, alla cultura tutta, alla nostra stessa vita.
Ma quel pubblico, quello spettatore, la sua fatica, la sua cecità, il suo desiderio,
nonostante tutto, di trovare nel confronto con l’arte uno spazio di identità e di anima,
diventano, oggi, il terreno principale di ricerca e di indagine per un teatro diverso.
Sette
Siamo di nuovo di fronte alle domande grandi: oggi, nel nostro tempo, a cosa serve il rito
teatro? Qual è la polis a cui si riferisce? Come lavorare con le comunità distrutte?
La situazione è molto grave. per questo non bisogna avere solo fretta. Non credere solo
nella forza salvifica di qualche escamotage organizzativo.
Il lavoro di creazione di comunità nasce oggi all’interno del teatro stesso, dei suoi attori,
registi, quadri organizzativi. Nasce in una nuova capacità di sapersi leggere come
comunità creativa e umana, dentro a questi nostri tempi. Di uscire per sempre dalla logica
“dell’uno contro tutti”, dallo “speriamo che io me la cavo”, ”dall’uno su mille ce la fa”,
Otto
C’è bisogno di confronto teorico e pratico sui grandi temi. Sulla trasformazione del senso
della drammaturgia e delle pratiche teatrali all’interno dei territori in cui agiamo.
Sul significato, per il teatro, dei grandi fenomeni sociali e culturali che stiamo vivendo: la
presenza dei migranti, l’ossessione sicurezza, lo scacco della ricerca e della cultura non
direttamente collegata al mercato. Solo per dirne alcuni.
C’è bisogno di un’idea di comunità teatrale che si allarghi immediatamente ai corsisti, ai
frequentatori di seminari, agli attori non professionisti coinvolti in molti progetti. Perché
questi soggetti possono essere, e in qualche caso già lo sono, contemporaneamente
attori, autori, comunità teatrale e pubblico di un teatro diverso.
C’è bisogno di riporre al centro di tutto la questione dello spettatore. Perché questo
spettatore ci interroga, ci mette in gioco nella nostra identità artistica, diventa il soggetto
principe della nostra riflessione. Non per cortesia, per scelta opportunista, per necessità di
seguito e di riscontro. Ma perché la posizione dello spettatore diventa la metafora più
adeguata a descrivere la nostra condizione nel mondo, la nostra cecità, assuefazione,
impotenza e, nello stesso tempo, voglia di un’esperienza e di una pratica altra.
Partendo dalla condivisione e dalla scoperta di queste possibili altre “buone pratiche” è
possibile che un teatro non nuovo, ma diverso, riprenda il suo cammino, con motivazioni
ed energie rinnovate e curiose.
Gigi Gherzi