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La sofferenza psichica nell’epoca della tecnica.
 
Questo lavoro rappresenta un momento di riflessione filosofica in un processo di
elaborazione teorica emersa dalla mia pratica clinica nel campo della salute mentale.
Uno dei principali scenari investigati è il nord del Brasile e, più precisamente, le città
di Fortaleza e Quixadà, dove con il dottor Joseph Jackson Sampaio e le Dottoresse
Marluce Pliveira, Clyde e Arminda abbiamo intrapreso un’investigazione teorico –
pratica su ciò che definiamo “la sofferenza psichica contemporanea".
Probabilmente, l’aspetto filosofico della questione di cui ci occupiamo è dato dal fatto
che – a partire dal materiale clinico – ci preoccupiamo di superare il punto di vista
accademico che determinerebbe un modo ristretto di guardare alla lettura teoricoclassica
della psicopatologia.
Al contrario, partiamo dalla convinzione che “pensare” è “pensare” “in e per un
tempo”, “in e per una situazione specifica".
A partire da questa nostra ipotesi, dunque, ci chiediamo: cos'è quello che fa
pensare, nella nostra epoca, nel campo della salute mentale?
Per cominciare quindi, dobbiamo tentare di comprendere la relazione esistente tra la
nostra pratica clinica quotidiana e il suo contesto “epocale”.
Sappiamo che in questa nostra epoca impera una ondata rIduzionista che tende ad
isolare la relazione e il momento clinico dal suo contesto sociale, storico, culturale,
economico, ecc.
Si tratta, in effetti, di una ideologia di tipo “scientista” che non è come dire
“scientifica”, nel senso che lo “scientismo” fa riferimento ad una “credenza irrazionale
e immaginaria nella potenza della scienza”.
 

Secondo questa prospettiva, diranno i rIduzionisti, il fatto concreto è che nel mio
consultorio ho di fronte un uomo o una donna che si trovano a vivere un episodio di
delirio o depressione, con un attacco di panico o quello che sia.
Una tale circostanza viene giudicata dal riduzionismo come il momento “concreto”
per eccellenza. Ma cerchiamo di capire quale potrebbe essere l'errore all’interno di
questo sistema di pensiero.
Hegel, in un articolo sopra “Il concreto e l’astratto” cita un giornalista che scrivendo
su “La Logica” – opera massima di Hegel- dice: “Il professor Hegel parla nel suo
trattato sull’universo delle leggi e dei principi che lo reggono ecc7 però come può, il
signor Hegel, spiegare la penna con la quale sto scrivendo questo articolo?”
Hegel rispose – con un suo testo che giustamente intitolò “La penna del signor
Kruger”- che, in effetti, egli aveva descritto un sistema, un paradigma, ma che
“astrarre”, estrarre da questo congiunto dinamico una penna, costituiva, secondo lui,
un “eccesso di astrazione”.
Si intuisce ciò che il filosofo intende dirci: “il concreto”, contrariamente a quanto si
possa pensare se ci si sofferma sull’argomento per poco tempo o troppo
rapidamente, “non è una parte astratta”, estratta dal congiunto.
La “decontestualizzazione” del “la penna del Sig. Kruger” fa in modo che questa
penna si trasformi in qualcos’altro di troppo astratto per poter essere compreso.
Detto diversamente, quando estrapolo un elemento dal suo contesto, questo
elemento si trasforma in qualcosa di incomprensibile, in un’astrazione esagerata.
Così come succederebbe con la penna del Sig. Kruger” (Op. cit.), molti dei nostri
colleghi, credendo di fare cose concrete, guidati probabilmente da un eccesso di
“pragmatismo scientista”, cadono, periodicamente, nella più pura metafisica, nella
più pura astrazione, privandosi, a causa del proprio modo di analizzare, della
possibilità di comprendere di ciò che, in realtà, si tratta.
La persona che sta di fronte a me, dichiarando la sua sofferenza, non è
comprensibile se non posso chiedermi e domandarmi qual è il dispositivo socio
storico e, a volte, culturale che hanno determinato il processo che ha condotto (il
paziente) sino al momento della consultazione.
Perché questa persona viene a parlare con me? Perché spera che io gli sia di aiuto?
Cosa vuol dire per questa persona, in questa epoca, essere aiutata? Qual è la
provenienza delle caratteristiche del sintomo che questa persona sta manifestando?
Queste sono solo alcune delle domande da cui partiamo per cercare “il concreto”
nella nostra pratica quotidiana.
Il futuro minaccioso
Nel tentativo di contestualizzare la nostra pratica, dobbiamo cercare di capire alcuni
elementi fondamentali dell'epoca in cui viviamo, senza trascurare il tempo, inteso
non solo nel suo contesto storico e spaziale, ma anche dal punto di vista della
dinamica del mondo, ciò che ci forma e ci costituisce come soggetti, individui e
società.
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Ciascuno di noi è una manifestazione concreta della nostra epoca.
E questa nostra epoca è segnata principalmente da una circostanza storica e
antropologica superiore a quella che potremmo definire semplicemente dicendo che
la nostra civilizzazione ha perso il suo elemento centrale del “mito fondamentale”,
cioè, il credere in un " futuro promessa", in un" futuro idilliaco ".
Quando evoco qui il concetto di "mito", per dire che abbiamo perso il suo elemento
centrale, mi riferisco alla teoria di Claude Levy Strauss che chiama "mito", ovvero,
ciò che serve a descrive, spiegare e giustificare “le azioni di ogni società e cultura,
dalle più intime a quelle più pubbliche (condivise)”.
Il nostro mito è stato incentrato sul concetto di progresso lineare, «teleologico»,
storicista, che porterebbe la nostra umanità verso il "punto omega", il lieto fine della
storia.
Non è assolutamente un'idea "monopolica" di un determinato discorso politico.
Anzi, al contrario, la credenza in un "domani migliore", struttura e alimenta ognuna
delle nostre azioni quotidiane. Di fatto, quando ho iniziato gli studi di medicina – nel
secolo passato – nessuno poteva immaginare che nel 2010 una semplice influenza
avrebbe potuto minacciare l'umanità o quanto saremmo stati lontani dal poter curare
definitivamente il cancro.
In medicina, la decadenza del "mito del progresso" avrebbero dovuto portarci, poco a
poco, ad una medicina più umile, capace di convivere con la malattia, con mali
emergenti o riemergenti.
Ma così non è stato.
La perdita di fiducia in un futuro “promessa”, ha dato il via libera ad un nuovo
concetto di futuro.
La pura positività si è trasformata in minaccia, in negatività. Ciò, tra l’altro, lascia le
nostre culture post-moderne prive di una maniera chiara di trattare ciò che possiamo
definire “negativo”.
Infatti, nel mito del progresso teleologico, "negativo" era destinato a scomparire.
Tuttavia, oggi vi è un vero e proprio “ritorno al negativo represso " in mille forme
inquietanti e minacciose.
Anche se non è possibile nel contesto di questo lavoro sviluppare questo punto,
dobbiamo tenere a mente che il 'negativo' come un insieme minaccioso per la nostra
vita, è trattato – "metabolizzato" – dalle diverse culture e civiltà quasi come un
'"economia" o una dinamica del sacrificio.
Le nostre società moderne, credendosi ultra razionali, pensavano di essersi lasciate
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alle spalle tutte le tracce di qualsiasi pensiero magico e tutte le pratiche sacrificali.
In realtà, il "sacrificale represso" diventa una perdita incomprensibile e dolorosa.
Questa minaccia che ha preso il posto della promessa, ha creato una soggettività
dominata dalla paura che provoca preoccupazioni costanti e un senso di insicurezza
a causa del quale migliaia di persone vivono sentendosi sotto la minaccia di pericoli
esterni e interni, per così dire, una minaccia e una paura frattale e diffusa.
Le nostre città e i nostri quartieri sono costruiti come fortezze e circondate da quella
che viene definito una "no men’s land". “La rottura dei legami” come ha
scritto,Melanie Klein, implica la difficoltà intrapsichica di pensare, di concettualizzare.
L’urgenza, la vertiginosità, poi sembra essere la nuova ideologia contraddistinta
dall’impossibilità di avvalersi del tempo necessario per sviluppare processi. La
minaccia detta e produce la sua propria temporalità: tempi di crisi, di urgenze. Un
forte individualismo. E’ uno dei sintomi di questa crisi.
Le persone sembrano essere fatte di una superficie ricettiva sempre più sottile.
Tutto accade come se l'uomo postmoderno fosse un uomo con le “sinapsi accorciate
", nel senso che tutto ciò che non sia ricollegabile alla sua vita personale e
individuale, non lo riguardi, non lo tocchi. La società soffre quindi, com’è logico che
sia, della conseguenza di questa incapacità degli uomini di essere emozionati,
toccati da ciò che è comune, di tutti. La base comune (lo zoccolo comune) si crepa.
Le visioni relativistiche ed egoistiche si diffondono. Le categorie "forte" e "debole"
sono i nuovi parametri della vita e tutti temono di essere deboli dinanzi alla durezza
della vita.
Naturalmente questo contesto socio-culturale e storico, individua una serie di
comportamenti, sintomi e malattie, che è opportuno spiegare attraverso una visione
riduzionista e dogmatica o cercando in loro un’unica causa.
Invece, penso che dovremmo piuttosto cercare di pensare in termini di una
complessa rete di causalità.
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Sappiamo che, per fortuna, nelle scienze biologiche, il progresso e le investigazioni
scientifiche ci hanno permesso di uscire da una cultura riduzionista derivata dalla
fiducia nel “tutto genetico”. La genetica è sicuramente fondamentale; però il credere
in “un gene” uguale ad “un carattere” è stato – senza alcun dubbio- una sorte di
“malattia infantile” della Biologia, che oggi giorno, fortunatamente, è stata superata.
Un solo gene, non può fare nulla, questa è la questione.
Lo stesso DNA, ha la capacità di raddoppiare ma non ha la capacità di esprimersi.
Nello stesso modo in cui i virus non hanno la possibilità di infettare una cellula, in
modo che il loro materiale genetico possa esprimersi.
Il materiale genetico è autopoietico ma non è la vita, nella stessa maniera si
potrebbe dire che i prioni sono autopoietici perché possono replicarsi, ma non sono
la vita.
Le prime divisioni dell'ovulo fecondato sono piuttosto delle segmentazioni. Vi è la
crescita cellulare e poco dopo le successive divisioni cellulari producono
progressivamente feti. Il citoplasma dell’ovulo si distribuisce in
unità cellulari più piccole che successivamente consentono una riorganizzazione
cellulare che varia a seconda della specie.
Nel frattempo, alcune cellule creano nuove relazioni spaziali rispetto ad altre e di
conseguenza si produce la differenziazione.
In breve, è sempre il rapporto tra il materiale genetico e il micro-ambiente circostante
e le sue modifiche, a consentire l'espressione delle caratteristiche di un fenotipo o di
un altro.
Questo significa che ciò che è possibile, da un 'potenziale' punto di vista di un
genoma, debba superare un sottoinsieme, che Leibniz differenzia come il
"compossibile" ovvero, il sottoinsieme che all'interno della selezione ed articolazione
epigenetica esiste realmente.
(il possibile secondo Leibniz è tutto ciò che teoricamente è possibile, in quanto il
sottoinsieme del "compossible" è quello che realmente può portare a una relazione
complessa con quello che già esiste intorno).
Il pensiero del contesto è ciò che ci permette di comprendere l'emergere di una
nuova sintomatica strettamente legata al contesto sociale e storico.
Da questa prospettiva, non si nega affatto il contenuto genetico dei singoli individui,
ma -semplicemente, si considera l'articolazione di questo contenuto nel contesto
epigenetico, sociale e storico, ecc. che determina la comparsa di alcuni nuovi
sintomi, nuovi tipi di malattie e modi di esprimere la sofferenza. Non esiste dunque, a
differenza di quello che i riduzionisti vogliono farci credere, una contrapposizione tra
lo psi – sociale e lo psi – scientifico.
Ciò che è in questione è un punto di vista complesso ed integrato che ci permetta di
capire esattamente e in forma contestualizzata la nostra realtà.
Le nuove patologie
Nei nostri servizi psichiatrici attualmente rileviamo una crescente richiesta di
attenzione legata al contesto che stiamo descrivendo.
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Si va da aumento dei passaggi all’azione, di varie forme di dipendenza, droga, alcol,
l'adesione a sette e altri gruppi di dogmatici e fanatici.
Una forte patologia narcisistica è quella che caratterizza la nostra contemporaneità.
Ma in fondo, tutti quelli che vengono a chiederci una consulenza sentono che stanno
perdendo la possibilità di gestire e il controllo il corso della loro vita.
Si tratta di un'esperienza molto forte, caratterizzata dalla sensazione di trasformarsi
progressivamente in "spettatori passivi della propria vita ".
Potremmo dire che la trappola è perfetta: più vogliamo vivere una vita "strettamente
personale" meno accesso e controllo abbiamo sui fenomeni che governano
dall’esterno la nostra vita.
Ciò succede a tal punto che "l’uomo della vita personale” si sente sempre più un
burattino, una foglia nella tempesta, che va a destra e a sinistra, senza potere nulla,
né attuare né capire la propria vita.
È questo insieme, questa problematica, che io Il Dottor Jackson e la Dottor.ssa
Oliveira chiamiamo “la nuova sofferenza psichica contemporanea”.
Ciò vuol dire che noi pensiamo che vi sia effettivamente un
urgente necessità di capire cosa costituisce il nuovo malessere culturale,
disagio è la nuova cultura, perché non vederlo, esercitare la clinica dogmaticamente,
significa – in una certa misura – essere sordi per I nostri pazienti.
Il Normale e il Patologico
La prima domanda da porci rispetto a questa forma di sofferenza psichica
contemporanea è se deve essere trattata da un punto di vista tecnico.
Il "normale" è stato sempre un problema in medicina e in particolare nel campo della
psichiatria.
Per lungo tempo, l'ospedale psichiatrico, il manicomio, ma più precisamente i suoi
muri, la sua architettura, sono stati quello che hanno dato al medico una materialità
concreta, una materialità oggettivata, quella che l’infermità mentale non era in grado
di dare. In questo modo le malattie mentali si materializzavano, differenziandosi dalla
normalità per il fatto di essere contenute in uno spazio fisico che le conteneva e le
custodiva. “Essere in manicomio” è stato per molto tempo il miglior elemento per
diagnosticare la pazzia.
Sappiamo bene che la riforma brasiliana, ispirata alla riforma del nostro amato
Francesco Basaglia in Italia, è stato un importante passo avanti in questa lotta per la
dignità, contro la normalizzazione abusiva, contro la repressione esercitata per un
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lungo tempo in nome di questa figura terribile: “l'uomo normale”.
Lo stesso sta succedendo in Argentina con la Nuova Legge sulla salute Mentale e
Diritti Umani1.
La nostra ipotesi di lavoro e di indagine comincia da ciò che crediamo sia un
avvenimento importante, vale a dire: "il fallimento dell’uomo chiamato normale".
Sappiamo tutti, più o meno, quali sono i contorni e i contenuti di questa figura
identificativa.
Un insieme strano che comprende l’eterosessualità, la razionalità, la maturità,
l’amore per il lavoro, l’accettazione dell’ordine sociale, una relazione disciplinata col
nostro proprio corpo e una certa "autonomia".
Forse citare alcuni brani della lettere di Cartesio ci potrebbe illuminare su questo
personaggio terribile. Cartesio scrive nella sua corrispondenza:
" Uno spirito attivo in un corpo adulto sano gode di una certa libertà di pensare a
cose diverse da ciò che i sensi gli offrono, l’esperienza ci insegna che non c’è la
stessa libertà nei malati, in coloro che dormono, nei bambini.. “
Questo è il problema, il malato, il bambino, il pazzo, il sonno, il tutto a cui si aggiunge
la parola "selvaggio ", il criminale e – sicuramente- la donna, formano questo gruppo
di “deviati”, rispetto all’immagine dell' "uomo normale".
Quest'uomo corrisponde allo zoccolo universale della modernità, che mira a
giudicare dall’alto di questa normalità gli esseri umani e le culture.
Noi latinoamericano, sappiamo che significò la famosa controversa di Valladolid in
Spagna, durante la quale Padre Frate Bartolomé de Las Casas difese l'idea secondo
cui i nostri connazionali, gli “indios”, proprietari ancestrali delle nostre terre,
riconoscendoli come "esseri umani" e andando contro la posizione del Vaticano,
rappresentato da Cepulveda che negava l'esistenza di una "anima" negli indios.
E 'importante sapere che in quell’epoca, le donne "ancora" non possedevano un
'anima per il “Santo Padre ".
Las Casas diceva che gli indios erano 'umani', quantunque possedessero
“un'umanità non completa”.
La gerarchia umanista universalista riproduce questa concezione che conserverà
per i secoli successivi. Dispositivo che serve, ovviamente, per giustificare la
repressione di tutte le differenza, in modo che l'impresa coloniale si sarebbe
preoccupata, in tutti questi casi: di completare l’umanità di queste persone.
Questo modello di uomo "razionale" e "normale" fu sviluppato anche da E. Kant nella
sua “Critica della Ragion Pratica”, in cui indicava la necessità e la possibilità di
promuovere la produzione di una umanità che avesse accesso alla pura razionalità e
che, consapevole di se stessa, sapesse quale fosse il suo Bene e come
raggiungerlo.
In attesa di questo "favolistico momento”, le avanguardie scientifiche, politiche,
artistiche, ecc. cercheranno di educare, disciplinare, punire.
In sintesi, lo scopo è produrre questo "uomo normale", attraverso qualsiasi mezzo
possibile, giustificati dal fatto che "è per il loro bene".
Tutto è spiegato "In nome del bene". Sappiamo che quando qualcuno vuole farci del
male possiamo difenderci; al contrario, il pericolo è spesso immenso quando
qualcuno sta cercando di imporre qualcosa dicendo che “è per il nostro bene”.
Ciononostante, l'ideale moderno dell' “uomo normale" non ha avuto fortuna. Piuttosto
sta scomparendo. Il modello è fallito perché questa famosa razionalità avrebbe
dovuto “pensare bene” per “produrre il bene” e questa profezia non solo non si è
verificata ma include anche una certa dose di humor nero.
Infatti, ora sappiamo che, contrariamente al desiderio di Kant , qualcuno può
“pensare bene, anche molto bene e fare comunque del male”.
L' "uomo normale", nel migliore dei casi, ha fatto la sua comparsa come
rappresentante di un sotto insieme del più ampio universo dell’ “uomo vero”, vale a
dire, di questo insieme multiforme, contraddittorio e complesso che è il genere
umano.
 
8.
La fine dell' "uomo normale" … e poi?
Si potrebbe pensare, in modo un po’ naif che l'obiettivo del progetto antropologico e
storico dell’ "uomonormale " segni nella nostra cultura un punto d’arresto; qualcosa
di simile ad un momento di riflessione, di lutto e di elaborazione. Ma credo che
pensarla in questo modo significherebbe essere ancora più naif.
In realtà, il fallimento dell' "uomo normale" marca il punto di partenza per un reale
salto in avanti, un attivismo vero che affronti e superi la questa questione.
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Allo stesso tempo, la nostra piccola umanità affronta questi problemi così profondi e
difficili, confrontandosi con quello che dovremmo chiamare "il ritorno della
complessità", che noi abbiamo creduto di esserci lasciati alle spalle, i nostri
contemporanei non solo non hanno marcato un punto di arresto, un momento di
riflessione, di dubbio, ma, come dando ascolto agli ordini di un generale, si lanciano
come pazzi in avanti, senza dubbi ne incertezze.
La "complessità ontologica emergente" sarà trattata, quindi, come una
"complicazione" che nella natura opaca, inquietante e incerta della complessità sarà
dimenticata e rimossa. Parlando in termini di "complicazione” cancella l'ineffabile
strutturale della complessità.
La tragedia del nostro tempo è represso dietro una
discorso che nega il tragico multidimensionale per parlare di che cosa è "grave". Il
passaggio dal "tragico", che ci coinvolge esistenzialmente, al "grave", segna una
chiara direzione. La risposta è e deve essere tecnica. Le persone devono essere
calme, passive, in attesa che i “tecnici” possano risolvere i loro problemi.
Questo può e deve essere letta come il passaggio dalla "res publica" (cosa pubblica)
alla "res tecnica" (cosa tecnica), fantasma della Repubblica di Platone diretta dai
consiglieri del tiranno.
Il dispositivo post-moderno è terribile perché rappresenta una cultura che si è
interrogata esistenzialmente e che ha, allo stesso tempo, una potenza tecnologica
immensa, inimmaginabile. La tecnica satura, con la sua potenza, qualsiasi falla,
qualsiasi dubbio nell’umano e nel culturale.
I difetti sono alla base della nostra unicità, il nostro destino è la nostra sfida. Per la
tecnica, invece,
ogni difetto è un fallimento da superare e, di conseguenza, la formattazione della
vita tecnica sminuisce e attacca la vita stessa.
Ogni sofferenza è quindi "patologizzata" e la tecnica deve occuparsene. Noi siamo
spettatori e consumatori della tecnica, delle molecole che devono occuparsi della
nostra vita.
Lungo il cammino abbiamo perso l’origine e il presupposto di ogni atto di libertà; la
sofferenza esistenziale, l’angoscia esistenziale, che d’ora in avanti verrà percepita
come un divieto, sarà considerata patologia da bandire.
L' "uomo normale" ha già lasciato il posto al suo erede "l’uomo modulare " che
Robert Musil ha descritto come "L'uomo senza qualità”, l’uomo dalla pelle liscia,
"tabula rasa", senza radici né territorio, "l'uomo deterritorializzato", come lo
definiscono Deleuze e Guattari, un uomo senza affinità elettive, né singolarità.
L' "uomo senza qualità", scrive Musil, è "le qualità senza un uomo ".
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Dobbiamo riconoscere nella definizione di “uomo modulare”, “l'uomo delle competenze”,
competenze utilitaristiche, che dove eliminare le sue “competenze negative” e
acquisirne di “positive”, dettate, queste ultime, dalla dura legge dell’economia e del
consumo.
L'uomo senza qualità, l’uomo modulare, è l’uomo delle “risorse umane”, risorse che
nell’insieme delle risorse di produzione sono le risorse rinnovabili, più economiche e
più sicure. Gli esseri umani si riproducono sempre nella legge della domanda e
dell’offerta e il loro valore continua a calare.
Il Biopotere è nato. E il potere, si occuperà da oggi in avanti, della vita, nel suo senso
biologico, la vita della gente, della gestione della popolazione nel suo substrato
biologico.
Al personale medico è richiesto quindi non solo di normalizzare, ma di supportare
nella gestione dell’umano, delle risorse umane.
Per una porzione molto piccola della popolazione, il medico sarà alla ricerca della
cura e del comfort; per la stragrande maggioranza, il medico – legato al biopotere –
sarà l’anima di questo biopotere.
In uno dei miei ultimi libri ho sviluppato questa ipotesi: "La salute a qualsiasi costo"
(Benasayag) e in un altro gli aspetti “psi”, “L’epoca delle passioni tristi” (tradotto in
spagnolo e pubblicato in Argentina nel 2010).
E 'importante vedere come le società democratiche nella sfera politica si
abbandonino a sedicenti pratiche eugeniste, nel tentativo di giustificare il biopotere.
L’ "uomo modulare" è un conglomerato complesso che gradualmente perde la sua
unità organica, tesi sviluppata nel testo “Organismi artefatti”.
Esiste una pericolosa “artefattualizzazione” della vita, resa possibile dalle promesse
del progresso tecnico che ci consentirebbe nuove possibilità che ci fa dimenticare
ciò che stiamo perdendo lentamente.
Citando Rousseau: “il problema del progresso è che noi sappiamo quello che
guadagnamo ma ignoriamo quello che perdiamo”.
In questo senso, credo che il disastro ecologico e umano già ci mostri poco a poco
quello che stiamo perdendo. Ciò è proprio non del "complicato", ma del "complesso",
non c'è guadagno senza perdita.
All’interno di questa produzione dell’ “uomo modulare”, dentro questo progetto di un
“umano perfezionato” (umano OGM) la psichiatria si occupa direttamente di
“eliminare tutti i sintomi”. In sintonia con la sensazione di urgenza, di insicurezza, di
angustia, le nuove molecole e i nuovi trattamenti rapidi eliminano tutto quello che dà
fastidio, tutto quello che spinge a porsi delle domande; la potenza tecnica è tale che
il progetto viene messo in pratica istantaneamente.
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Qualche tempo fa ho condiviso in Belgio una settimana di lavoro comune con
Isabelle Stengers e altri autori del libro “Libro nero della psicoanalisi”. In
quell’occasione uno di loro mi disse “quando qualcuno viene da te con una fobia tu
cosa fai?”. Io tentai di spiegarle che una fobia a sè stante, non esiste mai, oltre che
in quella caricatura che è il DSM4, in quel caso tento di contestualizzare i sintomi che
presenta il paziente e dopo si valuta. Non mi oppongo al medicare, anzi, la
medicazione è la benvenuta, ma a patto che sia all’interno di un progetto terapeutico
che parta dalla comprensione della singolarità della persona che si trova al mio
fianco.
Mi sembrava di aver detto un’enorme banalità, quasi una sciocchezza, per quanto
fosse evidente; nonostante ciò “l’amato collega”, molto americano, mi definì un
“disonesto”. Per i riduzionisti le cose sono davvero diverse.
Mi rispose: “E’ un po’ come quando lei vai in pizzeria e chiede una margherita e il
cameriere, invece di prepararle la pizza ordinata, inizia a farle domande sulla
margherita, da dove le proviene la sua voglia ecc. Ed infine le porta una quattro
formaggi”.
Però nel fenomeno umano, molto spesso chiediamo una margherita ed aspettiamo
una quattro formaggi7
L’impotenza rispetto alla vita che vivono i nostri contemporanei si sostanzia così, in
maniera un po’ contraddittoria, nella convinzione attuale che “tutto è possibile”,
dichiarando al mondo dell’economia e della tecnica, per i quali tutta l’ “impossibilità” è
o un’impossibilità di farcela, di superare tecnicamente oppure è un “impossibile”. E’
un’affermazione oscurantista, pericolosa, terrorista7
Nell’indagine che sto realizzando in Biologia, sto lavorando sulla ricerca di “invarianti”
biologiche, “non dipendenti” di una construtturazione sincronica.
Possiamo dire che la necessità epistemologica di tale indagine sia basata sul
principio logico che afferma che “se tutto è possibile, nulla è reale”. Come dire, la
ricerca del “non possibile” delle invarianti non con strutturate è fondamentale affinchè
la sua esistenza non solo “limiterebbe la vita”, ma paradossalmente la
proteggerebbe, perché – contrariamente a quanto possiamo pensare – è a partire
dall’ “impossibile” che la realtà possibile può esistere; cioè virtualizziamo ogni volta di
più la vita.
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Sofferenza e cultura. Sofferenza e libertà.
La nostra ipotesi, comunque, è che – nello stato attuale della sofferenza psichica
contemporanea – ci sia un contenuto culturale vitale molto importante che non deve
essere schiacciato in modo semplice e piatto con un discorso sulle molecole.
La sofferenza non possiede per me nessuna dignità ne tanto meno nessuno stile;
tutta l’oscura apologia della sofferenza è ben lontana da me; esattamente al
contrario è la “filosofia dell’allegria” di Spinoza ad ispirarmi.
Però l’allegria non consiste nell’evitare di soffrire, ovvero accettare una disciplinata
sopravvivenza in cambio di una anestesia sociale. No. L’allegria è lo sviluppo della
potenza del realizzare. Di questo si tratta: di recuperare la potenza del realizzare, di
rompere con la passività che ci rende spettatori delle nostre vite.
In questo senso, noi, in quanto medici, non siamo separati dalla realtà, dal contesto
dei nostri pazienti. Non siamo “veterinari” che si prendono cura – magari con amore
– degli animali, però guardandoli come diversi. No, la sofferenza psichica
contemporanea è un fatto. Esiste uno zoccolo comune condiviso dove il medico, il
lavoratore della salute mentale, è sulla stessa barca del paziente, che è quello che
recrimina.
“Noi siamo imbarcati”, questa è la frase di Blaise Pascal, con la quale, a mio avviso,
ci vuole dire che l’ “Etica Clinica” esige che noi creiamo le condizioni oggettive per la
ricerca di progetti di emancipazione, di recupero della forza di costruire con i nostri
pazienti; come dire, raggiungere il luogo del “potere”, essere uno più dell’insieme. Il
sapere è condiviso. Il malato “conosce” la sua malattia, anche quando la sua
conoscenza è negata. “Conosce”, come un oppresso conosce la sua oppressione, è
questo quello che ci ha insegnato il grande Paulo Freire nel “I saperi dell’oppresso”.
Il nostro lavoro è “filosofico” in senso “maiuetico”.
L’obiettivo è “aiutare a partorire la consapevolezza assoggettata; la consapevolezza
delle persone e di essere uno in più in un progetto condiviso di resistenza alla
distruzione dei legami, della vita, dell’uomo come essere complesso. Ciò vuol dire
qualcosa di molto complesso e molto semplice allo stesso momento, senza mai
contraddirsi. Si assume una posizione etica e politica di “non conoscenza”. Non
sapere dove si trovi “il bene dell’altro”; non sapere dove possano passare le vie
personali per la propria libertà, per la propria forza. Condividere una “non
conoscenza” non è ignoranza. Significa creare le condizione che permetteranno di
riprendere le redini delle nostre vite; riprendere le sinapsi che ci uniscono all’epoca,
alla cultura, al prossimo, a noi stessi intesi come “altri”.
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Nella sofferenza dei nostri contemporanei c’è un messaggio che dice: anche senza
conoscere in assoluto “il come della cosa” sappiamo che “c’è qualcosa che non va
bene”. Come dire, noi ci accorgiamo che quando le persone non possono, per diversi
motivi, esprimere positivamente la propria incapacità di realizzare una situazione è a
causa delle loro sofferenze.
Schiacciarlo significa schiacciare la soggettività, la singolarità della persona.
Tutto succede come se le persone venissero e ci dicessero “guarda, io sono
d’accordo con lo stile di vita (cioè, non discutono minimamente il sistema di vita nel
quale ci troviamo immersi), però il mio corpo e la mia mente soffrono”. “Siamo
d’accordo – implicitamente o espressamente – però mostriamo con la nostra
sofferenza, con la nostra distruzione, che il sistema attuale non è percorribile”.
Ricordiamo in questo senso il tanto amato Franz Fanon, ne “Le condizioni della
terra”; lo psichiatra antilliano che descrive come la domanda medica e psichiatrica si
sviluppa enormemente nelle persone che non riescono a trovare vie concrete di
sfogo per l’ingiustizia. I loro corpi dicono quello che non conoscono o che non
possono dirgli. Recuperare la dimensione di quello che chiamiamo la “sofferenza
esistenziale”, questo è il punto. In quest’epoca vediamo che la produzione dell’
“uomo modulare” esige dalle persone che siano “flessibili”, che tradotto nella vita
reale vuol dire che la gente deve, per sopravvivere in questo mondo, cercare di
diventare una massa malleabile, maneggevole, modellabile e rimodellabile, in
armonia con le esigenze del mercato, dell’economia e del consumo.
Tutto succede come se il sistema obbligasse le persone ad adattarsi agli
“esoscheletri” delle esigenze dell’economia, distruggendo il proprio
“endoscheletro", distruggendo i propri tropismi, desideri, qualità e peculiarità.
La “deterritorializzazione”agisce mostrandosi come “grande libertà”, il divenire uno
schiavo utilizzabile in ogni circostanza, al contrario, scompare.
Questo ci pone come professionisti di fronte ad una sfida, dobbiamo aiutare le
persone a tradire i propri personali tropismi, abbandonare i propri desideri per
adottare gli “esoscheletri” imposti dal sistema? Oppure dobbiamo aiutare le persone
a sviluppare i propri tropismi e desideri, nonostante i rischi che ciò comporta?
 
 Esoscheletri : Ci sono animali che hanno un esoscheletro e altri, come i vertebrati, che
possiedono un endoscheletro. E’ una metafora che utilizzo per sottolineare che esistono
persone che non possiedono un asse interno, uno scheletro interno e che, quindi, utilizzano
un guscio (non sono sicuro) esterno, un esoscheletro. Sviluppo questa idea più
approfonditamente in Benasayag-Dueñas “Malessere nella cultura contemporanea”.
Edizione Ed Noveduc. Bs As.
 
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Quest’ultima domanda, non perché tutto il tropismo o i desideri siano positivo, ma,
giustamente, perché non c’è vita senza rischi, la promessa della “sicurezza”,
l’ideologia della sicurezza, nel suo miraggio liberticida che, paradossalmente, finisce
per mettere a rischio i propri abitanti.
Come fare con tutti e con tutto? Questa è la nostra sfida; questo è il nostro progetto,
in Italia, in Argentina, in Francia e anche in Brasile, partecipando con immensa
allegria allo sviluppo dei progetti di laboratori sociali e università popolari, spesso a
partire dai CAPS che intendono accettare questa sfida.
Una nuova avventura piena di libertà, allegria e desiderio condiviso sta iniziando. Sia
questo un invito affinché i colleghi, i pazienti, i familiari, i vicini, – in sintesi, tutto il
mondo ascolti questa nostra chiamata alla felicità e alla resistenza. E ricevano tutti,
attraverso questo invito, la mia amicizia che è, allo stesso tempo, latinoamericana e
francese.