A Sud
di Gigi Gherzi

C’è uno spettacolo di Koreja dove un attore siede sopra un trono. Un trono fatto di prevaricazione e violenza, è un mafioso che parla, il testo è di Giancarlo De Cataldo. Attorno a lui quattro musicisti portano il rap in un territorio sconosciuto, quello del rapporto radicale con il teatro. Lo spettacolo è aspro, sporco, maleducato, fuori dai cliché vincenti nell’Italia teatrale di quegli anni. Lo vedo nella piazza di un paese del Salento. Mi piace. Mi parla di un altro Sud. O meglio di un altro modo di vedere il Sud.

Questa è la base del mio incontro con Koreja. La voglia di altre parole, altre storie, altre forme per raccontare il Sud. Perché il quadretto oleografico allora e oggi tanto di moda, fa male sia a chi il quadretto osserva, sia a chi dentro il quadretto vive. C’è una frase di Erri De Luca che mi martella nella testa. Dimissioni dal Sud.

La parola Dimissioni mi affascina. Perché c’è al suo interno qualcosa che va oltre il gusto della critica, della dialettica politica, del balletto delle opinioni. Corrisponde a un atto radicale di presa di distanza dal meccanismo dominante. Dimissioni non come fuga, o come alleggerimento della responsabilità. Ma, al contrario, come assunzione piena del dramma, partendo da una posizione che vuole recidere quei legami dati non dall’amore, ma dalla convenzione.

Avevo da tempo dato le dimissioni dalla mia terra, dal mio Nord immiserito nella paura e nell’ansia di “business creativo”. Adesso quella parola risuonava in un altro contesto, come esigenza e urgenza di libertà dello stereotipo dominante. Dal Sud che è solo cuore, passione, istintività, radice antica, mito e mistero. E che nella rincorsa e nella vendita di queste sue “caratteristiche innate”, evita di guardare il proprio volto mostruoso di oggi.

Dimissioni dal Sud diventa uno spettacolo. Uso il teatro come specchio per guardare il mostro. E arrivano immediatamente tre immagini potentissime.

Fabrizio Pugliese mi porta il racconto di una strage contadina nell’Italia che ancora industriale non è. Parole antiche, che arrivano con i colori del sogno e della leggenda. “La terra a chi lavora”. “Uguaglianza”. Cafoni massacrati, terra condannata a rimanere latifondo, aspettando le politiche che l’avrebbero trasformata in discarica.

A Brindisi il Petrolchimico mi appare come una cattedrale abbandonata. Vecchi operai, ex sindacalisti, ci raccontano il Progresso che arriva distruggendo coste e culture, sogno di modernità e di industria. Storie di inquinamento del luogo si mischiano a storie di rapporti inquinati, di degradazione umana, i corpi esposti al rischio e alla tossicità, senza sicurezza. La città schiava, ricattata.

Ogni mattina nel Bar del Cappuccino leggo il giornale locale. Le cronache locali del giornale locale. Piccoli paesi, notiziole, trafilettini. Ne esce l’immagine di una terra in preda a vizi e ossessioni nuove ed insidiose, a paure altissime, al ritorno delle faide, a consumismi tanto violenti quanto improvvisati. Il tutto sotto la benedizione della nuova cultura televisiva e mediatica, con le sue piccole star e i suoi piccoli grandi festival, sponsorizzata dagli assessori alla cultura dei comuni, onnipresente nelle sfilate estive offerte al gaudente popolo delle spiagge.

 

Nasce “Dimissioni dal Sud”. Uno strano spettacolo. I tre attori-autori di Koreja diventano tramite, attraverso la storia che ognuno di loro ha raccolto e adesso trasmette, di una riflessione che mette in gioco l’immagine del Sud. Di una lettura critica della sua storia. Di una rabbia non riconciliata con il presente.

Non tre storie chiuse, che, attraverso il rimando alla propria miticità, antichità, nobiltà, leggendarietà, si legittimano. Ma tre attori-autori, uomini e testimoni del proprio tempo, che quelle storie interrogano, per necessità di comprenderle e di comprendersi, di ridefinire la propria posizione esistenziale (dimettersi?), col risultato di ferirsi, di rimanerne spiazzati e non consolati. Di non offrire catarsi al pubblico. Di non mandarlo a casa pacificato e contento.

In “Dimissioni dal Sud” si vedono già in nuce i tratti che avrebbero guidato la mia ricerca negli anni successivi. La scelta di avventurarsi in un territorio che mette in discussione la narrazione tradizionale. Gerardo Guccini parla di questo lavoro come quello di una post- narrazione.

Uno dei tratti è la presenza esplicita, dichiarata, dell’autore dietro la narrazione che si sta operando. L’autore e l’attore-autore non mettono in scena, non raccontano una storia. Mettono in scena il proprio rapporto con le storie. E in questo modo rompono un velo di finzione, di enfasi narrativa, di patetismo degli effetti, che a volte attanaglia anche gli spettacoli più riusciti. Sono proprio questi elementi, che costituiranno il nucleo forte e anche più riconosciuto e apprezzato dei miei lavori successivi, a scatenare un dibattito acceso.

L’esito dello spettacolo è altalenante. Va benissimo con il pubblico, quello normale e quello più popolare. Molto bene anche con certi intellettuali militanti e pezzi della società civile. Lascia sostanzialmente dubbiosi operatori del settore e mondo teatrale e culturale in generale. Viene rimproverata allo spettacolo un’eccessiva chiarezza, un parlare troppo fuor di metafora, l’assenza di magia, l’affondo troppo diretto e senza mediazione nella realtà storica e umana di quegli anni.

Io ascolto e capisco. Capisco la bellezza e il limite di una cultura che riesce a guardare se stessa solo in presenza di metafore e di proiezioni mitiche. So quanta arte e poesia e meraviglia quella cultura ha prodotto e continua a produrre all’interno di quegli stilemi compositivi. Rispetto, capisco, ma qualcosa non quadra.

Perché in gioco è il rapporto tra cultura e realtà. E la sensazione è che parte del mondo culturale e intellettuale sia sostanzialmente sulla difensiva, spaventata da una realtà troppo dura anche per essere nominata.

Che nel cuore di tutti ci sia la voglia ma non ancora il coraggio di un atto culturale radicale e liberatorio. Che restituendo al Sud la sua tragedia, storica e presente, possa restituirgli anche la sua bellezza e la possibilità di ridiventare laboratorio delle arti, delle convivenze, delle forme di vita. Atto difficile, che per restituire al Sud la possibilità di un “pensiero meridiano”, deve saper affondare il coltello nell’oscurità del presente. Atto che ad un certo punto, per tutti, avrebbe fatto Roberto Saviano con il ciclone “Gomorra”.

Ombra lunga dell’autore. Rubo questo titolo a un bel libro di Carla Benedetti. Forse è anche per questa mia necessità di evidenza, di rottura della finzione teatrale, che Salvatore Tramacere mi propone di lavorare come drammaturgo su Brecht. Uno strano Brecht. Si è deciso di indagare tre opere:

 

“Baal”, l’opera forse più giovanile ed anarchica.
“L’opera da tre soldi”, la società vista come un melodramma dissacrato.
“Il cerchio di gesso del Caucaso”, dove la parola ritrova nell’ironia sapienziale del giudice un valore di altissima pedagogia.

Quello che subito mi viene da fare è sparigliare le carte. A partire dal titolo. Brecht’s dance. Perché, fino agli anni in cui è diventato politicamente inopportuno farlo, ho conosciuto il Brecht degli Stabili. Troppo spesso irrigidito, ampolloso. La straordinaria macchina teatrale brechtiana ridotta a qualche stilema, a qualche segno di uno straniamento diventato tutto di facciata. Un’operazione in cui Brecht diventava strumento di certo conformismo politico, espressivo ed estetico “di sinistra”. Operazione che giustamente le generazioni artistiche e politiche successive rigettano. E Brecht?

Brecht che da giovane canta nei cabaret. Che impara l’arte dello straniamento anche nel rapporto con le forme più popolari dell’intrattenimento. Che è poeta senza la retorica della poesia. Che fa libri in cui mette poesie sotto fotografie e incrocia il teatro con la musica in una maniera mai vista prima. Il Brecht ribelle, sperimentatore, che fine fa?

Così Brecht’s dance diventa per me, da subito, anche nel suo sottotitolo, “la danza del ribelle”.
I tre atti una riflessione sulla figura del ribelle.
Il Baal anarchico, iconoclasta, vitalista, nella sua gioventù.
La ribellione di Mackie nell’Opera da tre soldi, ribellione banalizzata, schiacciata dai codici criminali, dalle regole a coltello di una società parallela.
Il vecchio giudice del “Cerchio di gesso del Caucaso”, che non si scorda che nella ribellione alla convenzione e al modo tradizionale di intendere la Legge e la Norma, non ci può non essere anche una proposta di costruzione di altri rapporti e di altre etiche. Che, alla fine, l’uomo trovi veramente casa nel mondo.

A sparigliare ulteriormente le carte ci pensa Salvatore. Chiama come figura decisiva dello spettacolo Raiz, gran cantante degli Alma Megretta. A lui le canzoni, certo. Ma a lui anche il compito di essere la controfigura di Brecht e del suo pensiero, in scena. Come Raiz sa fare, apparentemente senza sforzo. Quasi svogliato. Assolutamente efficace.

Non riduco, non adatto i testi. Partendo da questa idea li trituro, aggiungo testi miei, li mischio in continuità con quelli di Brecht, gioco a mascherare le carte, che la differenza non si noti.

Devo scrivere molto per Raiz che è cantante e non attore. Metto a frutto la mia esperienza giovanile di cantante in un gruppo punk-rock. So scrivere versi che non spacchino la bocca a un cantante. Raiz li prende e non li tocca, mi dice che dentro ci si sente a suo agio. Respiro di sollievo, il mio.

Strane giornate di lavoro. Ci ritroviamo una mattina a parlare di Genova, del movimento No Global. Lì mi accorgo di quanto il giudice del “Cerchio”, nel suo essere, anticipi modalità e pensieri di quell’onda politica che stiamo vivendo. Rileggo lo scontro tra le due madri, come lo scontro di chi si cura delle creature della terra contro chi si cura del possesso delle creature della terra. Immagino un ring. Due attrici, nell’improvvisazione successiva, trasformano quell’intuizione in una grande scena di teatro.

Salvatore lavora sulle visioni. Su una straordinaria macchina scenica. Sul concertato degli attori. Ci sono momenti in cui i nostri due lavori si sposano, con risultati di grande efficacia. Meno efficaci i momenti in cui le nostre due diverse autorialità confliggono, non si capiscono. In cui sembra che una forte presenza della parola e del testo possa togliere forza alla visione, al linguaggio musicale e visivo. E viceversa.
Lo spettacolo, un crogiuolo di linguaggi, di spinte e controspinte, di attorialità e non attorialità. A distanza di anni posso dirlo: uno spettacolo bello. Un atto di coraggio. Uno spettacolo non convenzionale. Che anche nei suoi irrisolti apriva domande feconde.

Perché la forte presenza, nello stesso spettacolo, del linguaggio della parola, dei segni visivi e spaziali, di quelli dell’invenzione musicale e sonora, qualche problema li da. Il problema non è un ritorno all’ordine, a un teatro educato. E’ il passaggio da una multimedialità che a volte troppo lavora per sovrapposizioni ed accumuli a una trans-medialità.

Che significa che più linguaggi possono raccontare una storia. Ma forse non nella somma, non nel creare gerarchie interne ai linguaggi. Ma creando spazi dove ogni linguaggio possa esplodere nella sua massima potenza e concependo lo spettacolo come luogo di detonazione cosciente e ricercata di questi registri e linguaggi differenti.

Ho imparato molto da questi lavori fatti con Koreja.
Ho imparato a far emergere fino in fondo la figura dell’autore, a non nascondermi dietro le ombre dei personaggi, a mettere in discussione forme rassicuranti della narrazione.
Ho imparato i problemi ma anche la bellezza che c’è nel far scontrare diversi linguaggi scenici e diverse autorialità all’interno dello spettacolo.
Negli anni successivi ho riflettuto a lungo sulla possibilità di sviluppare percorsi e sperimentazioni in questo senso.

Sarà un altro Sud, quello dell’America Latina, con la radicalità delle sue vite e delle sue forme di espressione vitali e artistiche, a permettermi di coltivare quei semi, di dare spessore e profondità alla riflessione, di scegliere fino in fondo una via radicale nell’affrontare e raccontare il presente.
L’ultimo spettacolo mio e di Pietro Floridia “La strada di Pacha”, per quanto mi riguarda, deve molto all’esperienza di quegli anni.

Anni e lavori che ricordo interessanti. Spazi di confronto sicuramente non idillici, pieni anche di tensione e di conflitti, di cui però mi rimane dentro la preziosa tensione vitale. Spettacoli in cui si è praticato il “dubbio poetico”, in cui, insieme, si è accettato di confrontarsi con linguaggi e modalità narrative nuove, con domande non convenzionali che riguardavano il ruolo dell’arte e dell’essere artisti, in questo nostro strano presente.

Per cui è con piacere che faccio gli auguri a Koreja per il suo compleanno. Che rimanga uno spazio in cui sia possibile coltivare il dubbio poetico, in cui la logica delle etichette non sia dominante. Che sia un luogo del pensiero meridiano.
                                                                                                                                             Gigi Gherzi