Il mio intervento al convegno su "Teatro e psichiatria" svoltosi a Magenta nel maggio 2011

Il mio progetto Report dalla città fragile è iniziato all'interno dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Quando si è deciso di lavorare sullo spettacolo innanzitutto ho cominciato a intervistare persone che soffrono di disagio psichico che sono passati in quel manicomio e pazienti più recenti che sono in affido ai servizi psicosociali di zona. Contemporaneamente sono andato per la città a intervistare manager, ragazze che fanno stage in pubblicità, un’avvocata che si occupa di mobbing, uno studente bocciato parecchi anni all’ultimo anno di scuola, un’insegnante precaria. Quello che mi ha colpito immediatamente la presenza di un grande dialogo tra le interviste e tra i segnali di disagio che arrivano dal mondo di chi soffre di un disagio mentale dichiarato e dal mondo che si dice normale. C’è qualcosa che ci accomuna: la riflessione sulle norme. Sono norme che parlano di performance, di competitività, di farcela, di guadagnare il proprio posto nel mondo, di riuscire. Alcuni psichiatri mi riportano che le sintomatologie riguardano gli attacchi di ansia, di panico, il senso di non trovare il proprio posto nel mondo, il non sapere chi sei e che cosa sarai, il senso di un futuro inesistente, negato alle giovani generazioni. La cosa più sconvolgente che ho scoperto intervistando quelle persone malate, dentro il loro percorso di recupero, è che loro normali non vogliono tornare. La normalità oggi non esiste più. Non possiamo prendere una persona che sta male e dirgli di tornare normale, per inserirsi in un mondo competitivo e feroce dentro un lavoro di precariato. Questo non vuole essere un elogio della follia. Il problema però è che tutta la nostra vita quotidiana è intessuta di patologia, e noi non possiamo porre la normalità come uno standard ipotetico e poi pretendere di ritornarci. Partendo dalla debolezza, dalla fragilità: le persone cominciano a dire che bisogna vivere in un altro modo, dando spazio alla relazione, alla lentezza, alla comunicazione, alla considerazione della fragilità non come una mancanza.

Mi accorgo che le categorie, i pensieri che raccolgo dalle persone con disagio psichico, mi aiutano a rileggere la mia città. Il problema del teatro sociale è che a volte è un teatro che si occupa dall’esterno di un soggetto: se noi non riusciamo a capire quello che ci racconta di universale quella condizione, quello che riguarda noi, quello che cambia le vite di tutti, questa scommessa culturale è persa. Per fare un esempio. Noi non dovremmo parlare di malati di mente ma del nostro rapporto con un concetto che è la sanità mentale. Il cogliere l’universale è l’unico strumento che va a tessere di nuovo una proposta estremamente forte e ricca a livello culturale, perché se i mondi rimangono separati, se da quella platea ci sono solo persone che guardano dall’esterno un fenomeno, è molto debole quello che succede a livello culturale, umano, artistico. Per questo è importante cercare di sentire quello che tu senti perché mi appartiene. Questo è un principio drammaturgico e di composizione, fondamentale e si può riassumere così: io come un matto, io come uno straniero, io come un bambino, ma al contrario anche un matto come me, un bambino come me, uno straniero come me.

Il teatro in questo momento ha un grosso compito: togliere le etichette, restituire individualità e soprattutto creare quel tessuto di empatia che è culturale, poetica, che ci permette di sentire non semplicemente l’affetto, il rapporto di cura con chi riteniamo diverso da noi, ma che ci permette di sentire quella diversità come un pezzo della nostra anima. La nostra è una società che vive di definizioni, che si sono sostituite alla conoscenza reale delle persone. David Grossman scrive che la violenza più grande che si può fare a una persona è quella di metterla dentro a un'etichetta, perché una volta messo dentro un’etichetta, e lo è anche “malato di mente”, non esiste più come persona, non ha più storia, non ha più personalità, non ha più individualità. Sempre Grossman scrive che l’arte ha un grande strumento a disposizione che si chiama immaginazione narrativa: se io devo scrivere di una persona, devo cominciare a guardarla e capire come è, chi è, qual è l’energia che mi arriva da lei, la chimica dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, le sue storie. Alla fine di questo percorso il malato mentale non c’è più: ha un nome, un cognome, un’età, una particolarità, esiste la persona.