Relatore: Gianluigi Gherzi

E’ da tanto tempo che io lavoro coi giovani e con gli adolescenti. Anch’io ho cominciato da adolescente a lavorare con l'arte, ero un ragazzo di diciassette anni che insieme con altri ragazzi della stessa età fonda un gruppo teatrale. Il nostro gruppo. Poi, ho cominciato a scrivere su questo tema, a riflettere, sul rapporto tra arte e adolescenti.
Per alcuni artisti, lavorare con un’età particolare, una fascia particolare di popolazione, è come guardarsi allo specchio, cercare una risposta poetica. Ad alcuni scrittori, pittori, succede con i vecchi, ad altri succede con gli adolescenti, ad altri succede con le situazioni di solitudine estrema.
Adolescenti: questo mi sembra un convegno fuori dal coro, in controtendenza rispetto alle stupidaggini mediatiche che si scrivono. Un convegno estremamente umano e di contenuti alti. Affronterò tre punti.
Primo, io vorrei parlare dei cosiddetti “nuovi barbari”, ovvero di quella degradante immagine dell'adolescenza che passa attraverso i media, una vera e propria trappola culturale.
Dunque, l'identikit del nuovo barbaro è: persona definita adolescente, che non ha capito i valori della politica, come se la politica oggi fosse strapiena di valori straordinari da condividere, persona senza morale, con etica incerta, interessante anche qui vedere l'esempio dei maggiori su questo tema; persona con scarso rapporto con il passato, vedere cosa succede dell'eredità culturale in Italia nella concreta gestione delle politiche  culturali. Infine: persona forte coi deboli, e debole coi forti; maniaco del successo personale. Stanno parlando di chi ha diciotto anni, stanno parlando di loro in platea.
Mi sembra che la generazione adulta stia facendo il gioco dello struzzo. Che dietro la condanna ipocrita e moralista dell’adolescente “barbaro”, nasconda il proprio inferno, la propria crisi, culturale e sociale. Ciò è deleterio, perché impedisce a tutti noi di guardarci allo specchio, di vederci come realmente siamo oggi: un popolo, persone, che hanno forti problemi con la morale, con l'etica, nel rapporto col passato, una società sostanzialmente forte con i deboli e debole con i forti.
Antonin Artaud diceva: “Io ho sofferto molto, quindi posso parlare”. Io credo che oggi possa parlare chi decide di condividere un'esperienza del dolore reale. Che è il dolore di un oggi dove la sensazione è quella di vivere in un mondo in cui la crisi non è più un dato congiunturale, ma permanente; il dolore di vivere in una situazione dove, per la prima volta nella storia delle generazioni, l'immagine del futuro è luttuosa invece di essere un’immagine positiva, il dolore di una condizione di precarietà che, partendo dalle condizioni economiche e materiali, diventa precarietà esistenziale, insicurezza del proprio futuro. Se noi possiamo, e riusciamo, a condividere questo dolore, possiamo parlare, altrimenti, parlando di giovani ed adolescenti, si rischia veramente di aggiungere nero a nero, razzismo a razzismo, stupidità a stupidità.
Secondo punto: cosa succede alla cultura in questo contesto? Cosa succede al nostro rapporto con la cultura? C'è una trappola anche qua. Charmet accennava alla trappola etica: il museo non è solo fatto dal nonno ma anche rivolto ad un nonno. Fatto da un nonno che, in qualche maniera, ti fa capire che ai suoi tempi andava bene. In certi momenti mi sembra che il museo sia fatto da un padre ipocrita, che afferma valori che concretamente nella vita non pratica e a cui non dedica interesse e risorse.
Passato e futuro: siamo di fronte a una sorta di racconto interrotto fra le generazioni. Voi sapete che sempre, in qualche modo, c'era – e in fondo questa è la radice di quella che noi chiamiamo la nostra civiltà – l'idea che nell'esperienza delle generazioni precedenti ci fosse qualcosa di utile e di importante, di significativo, da cui la nuova generazione potesse apprendere.
Però, nel nostro mondo – al di là delle affermazioni retoriche tipo “guardate il passato”- non è vero che c’è un atteggiamento culturale che vede il passato come qualcosa che ha una lezione da insegnare. Noi siamo schiacciati in un presente assoluto, che è il presente della sopravvivenza, che è il presente del “si salvi chi può”. Le indicazioni del passato vengono fatte passare come disturbanti, come cose che non hanno un valore concreto, economico: non puoi appoggiarti al passato per trovare lavoro domani; non puoi usarlo come merce di scambio all'interno del mercato del lavoro. Quindi il passato viene citato retoricamente come generica necessità di acculturazione, per non fare troppa brutta figura; per non dire che Piero della Francesca è vissuto nel XVIII secolo; per schierare, come facevano d'altronde anche i nostri genitori, lunghe file di enciclopedie a tappezzare i salotti. Ma noi non viviamo un rapporto esistenzialmente fecondo né con il passato, né con il futuro e questo crea un trauma, a un trauma culturale che noi viviamo in maniera profondissima.
Questo presente assoluto sembra depotenziare, apparentemente, la forza dell'arte, la sua capacità di essere specchio in cui le persone si guardano per capirsi, per porsi nuove domande, per porre nuove domande al mondo.
Molta letteratura, nell’ultima metà del secolo scorso, ha profetizzato questo: vedeva l'isolamento dell'uomo che aumentava, la sua perdita di centralità nel mondo. Ecco quel momento è adesso, quel momento è arrivato. Quello di cui si è scritto è ora la nostra condizione presente, esistenziale. E mi permetto di leggere una breve citazione di Antonio Scurati, uno scrittore molto attento a questi temi.
“Fine dell' Umanesimo, noi stiamo vivendo la fine dell'Umanesimo, che significa non potere più vivere con i propri morti. Fine dell'Umanesimo significa essere esclusi dalla comunione con i morti, essere tagliati fuori dalla storia che abbiamo in comune con loro, dal racconto della nostra appartenenza alla catena delle generazioni estinte, che anello dopo anello risale fino all'origine dei tempi. L'Umanesimo in fondo è stato principalmente questo: un culto dei defunti, l'idea che tutto ciò che i padri, gli avi, gli antichi avevano fatto di giusto, di bello, di vero, non era vano, perché giungeva fino a noi, era anzi tanto più prezioso quanto più risaliva nel tempo a epoche a noi lontane. L'Umanesimo era la pretesa smisurata e salvifica che, tutto sommato, l'eredità lasciata all'uomo dall'uomo non fosse poi pari a niente. Era il tentativo di stabilire una comunione di vita tra i vivi e i morti e persino tra i vivi, i morti e i non ancora nati. Se di questa idea siamo deprivati, ci sentiamo per altro verso esclusi anche dal nostro futuro. Fine dell'Umanesimo significa perciò  anche non potere vivere con i non ancora nati.”
Fine della citazione. A questo punto eccoci di fronte al nostro museo. Alle immagini di museo socialmente condivise. Prima immagine: il museo spesso percorso da terrificanti visite guidate, di scolaresche e non, che uccidono qualsiasi spazio di silenzio e di percezione per chi guidato non è in quel momento, e dove, sostanzialmente, sembra di percepire un brutto rito, che è il rito dell'acculturazione forzata di persone a cui “non gliene può fregare meno”. Questo però rassicura. Rassicura l'Istituzione, rassicura i botteghini dei musei, ma ci spinge ancora una volta a sentire che vita ed esperienza sono da una parte, cultura e arte dall'altra; le due cose non comunicano, non ci sono domande che passano da un campo all’altro.
Seconda versione del museo: la sede di eventi speciali, di presentazioni patinate, uno dei tanti luoghi dell'entertainment contemporaneo. Però, però ci vuole la mostra giusta, però ci vuole la promozione giusta di quell'opera particolare, eletta a feticcio, che viene posta al centro della mostra.
Io credo, non solo per il museo, che in realtà – e qua arriviamo al titolo del mio intervento, “I quadri dell'identità” – ci sia un problema di ricostruzione della cultura personale di ognuno di noi. La cultura è fatta di riletture, non di acculturazioni. Voglio dire che dobbiamo avere la forza, come docenti, di prenderci la responsabilità di narrare la cultura e di narrare l'arte non come una serie di date, di stili, ma come territori in cui porci quelle domande che così bene individuava Alba Trombini nel suo intervento.
E' un’assoluta falsità che i giovani siano disinteressati alla cultura come processo attivo, sono giustamente e assolutamente disinteressati alla tromboneria culturale dell'acculturazione, dell'accumulare titoli, citazioni da sfoggiare. Proviamo a cercare altre modalità: narrare, ascoltare, rinarrare. Perché qui noi arriviamo al punto decisivo, che già aveva rilevato Alba Trombini, la possibilità che noi diventiamo museo, luogo di raccolta degli immaginari, di una sensibilità giovanile rispetto all'arte.
La sana maleducazione giovanile dice “E' morta”, quando parla di un’arte promossa unicamente e retoricamente per “il valore storico, culturale, il senso della testimonianza bla bla bla il valore del passato eccetera”.
Se l'arte non ridiventa uno strumento che brucia, che brucia dentro, che brucia noi, che c’interroga su come vivere, che cosa vivere, cosa scartare, cosa mandare a quel paese, di cosa innamorarci, l’arte perde, si depotenzia.
I quadri del museo davvero possono essere “quadri dell'identità”. Perchè spesso l'opera d'arte pulsa di sangue, pulsa di vita. Pulsa di conflitto, del rapporto spesso difficile tra artista e società che lo circonda, tutte così che ci riguardano e ci rilanciano domande, sulla nostra identità.
Avrei tante cose ancora da dire ma mi fermo qui e voglio solamente, ancora una volta, citare uno scrittore, Jean Paul, che diceva che “ogni libro è una lettera scritta a un amico lontano”. Io penso che la stessa cosa si può spostare sull'opera d'arte. Ogni opera d'arte è una lettera nel tempo, scritta a un amico lontano. Se noi riusciamo a rendere vivente quella lettera, se noi riscopriamo quell'amico lontano dentro di noi, abbiamo fatto una cosa importante, per l'arte e per noi. Grazie.