Teatro, cornici, viaggi.

Per ragioni, credo, legate alle esperienze che ho fatto, a me viene naturale ragionare sul tema “spettacolo” in termini di viaggio, ovvero tramite schemi, metafore, categorie che appartengono all’esperienza del viaggio. E allora partiamo. Se mi accingo a partire per l’India, mi dispongo mentalmente in modo diverso che se mi accingo a partire per Rimini. Nell’un caso una certa “mitologia” sull’India mi dice che sarà un’esperienza che potrebbe cambiarmi la vita, nell’altro caso no. Questa chiave di lettura, questo sfondo di aspettative, questo pre-giudizio può rivelarsi fondamentale almeno quanto la “realtà India” che andrò ad incontrare perché quanto mi accadrà possa tradursi in un’esperienza significativa per la mia vita. Se nei prossimi anni (potrebbero bastarne abbastanza pochi) dell’India si incominciasse a dire quello che si dice della Cina, ovvero che il capitalismo ne sta cambiando il volto, se dunque la fama, la narrazione, l’alone che circonda l’India cambiasse, cambierebbe anche la domanda di significato con cui e per cui partiamo, cambierebbe “lo sfondo india” (quel groviglio di immagini, pensieri ed emozioni che anche inconsciamente associamo all’India e dentro il quale andremo a collocare la “realtà” con cui entreremo in contatto diretto), con la conseguenza che, probabilmente, a parità di itinerario, a parità di realtà incontrata, il viaggio acquisterebbe tutt’altra rilevanza di significato. Quando parto per Rimini (il prossimo week-end? Forse… Normale) la cornice dentro la quale inquadro il tipo di esperienza che mi accingo a fare, il fatto di dare al viaggio tutt’altro orizzonte di durata, di intenti, di senso, fa sì che porti con me altri schemi interpretativi, altri criteri di valutazione, ma questo (e non Rimini) quasi certamente precluderà in partenza un salto di livello nel significato dell’esperienza. Non so se corrisponda a verità storica dire che un tempo lo spettacolo teatrale fosse l’India, ma lo è per certo dire che ora è una località da week-end o poco più. E questo non necessariamente perché gli spettacoli si siano impoveriti, ma perché è alquanto ridotta la domanda di senso che facciamo ad uno spettacolo, quello che ci attendiamo da questa esperienza. Ecco perché il tipo di ricerca teatrale che conduco, lavora e lavorerà molto sul patto iniziale che si va ad instaurare con gli spettatori. Si tenterà di rendere meno facile per lo spettatore inquadrare l’esperienza dentro quel rituale sociale/cornice prestodefinibile come “spettacolo teatrale”, nella convinzione che anche solo l’ostacolare il ricorso a schemi automatici possa attivare altri collegamenti, altri sfondi, altri serbatoi che darebbero “a parità di itinerario” una maggiore significatività all’esperienza. Ed ora di nuovo in viaggio. Perché, come dicevo prima, le domande da cui muove questa ricerca, mi sono esplose durante viaggi. Da ragazzino viaggiavo leggendo. Leggendo sognavo di andarmene che so a Mompracem per poi ritornare con degli oggetti magici con cui trasformare il presente. (Pomeriggi sui compiti, compagni tiranni, timidezze insuperabili.) Da grande non è cambiato molto. Ho continuato a pensare l’altrove come un serbatoio di talismani con cui ritornare e cambiare le cose. Il mio primo altrove, la mia prima “India”, è stata la Palestina.

 

Ci sono stato svariate volte, ne ho conosciuto molte durezze, ciononostante dentro di me continua a vivere soprattutto come simbolo. Come incarnazione di un significato. Come altra metà del cielo. Credo che sia abbastanza normale. Molto di quello che gli orfani di senso, di conflitto o di politica fanno fatica a trovare in Occidente lo vanno a cercare in Palestina. E io tra loro. E questa (maledetti noi!) è anche la disgrazia dei palestinesi. Quello che ci impedisce di vederli per quello che sono. Quello che li lascia là, senza che nulla cambi, mentre noi ce ne torniamo col nostro tesoro di dubbi, domande e illuminanti disorientamenti. Per quanto mi riguarda il cammino che ora chiamiamo “teatro dello spettatore” è cominciato là. Alla periferia di Ramallah. Stavo conducendo un laboratorio teatrale con un gruppo di bambini. In mancanza di spazi, provavamo sul cassone di un camion abbandonato. Il rituale più o meno si svolgeva così: mentre due malcapitati improvvisavano, che so, Hansel e Gretel al check point, gli altri segnalavano il gradimento tramite lancio di pietre. Quando la sassaiola smetteva, voleva dire che la scena stava funzionando. Un’amica palestinese mi raggiunse durante una di queste lapidazioni e mi chiese se nel pomeriggio di domenica sarei andato con lei a vedere “il primo musical palestinese”. Così disse con orgoglio. Premetto che il musical non è esattamente il mio genere, diciamo che quando posso lo evito, ma insomma lei ci teneva tanto che decisi di andare. Era una caldissima domenica d’agosto, andando in là in taxi non potevo fare a meno di prefigurarmi atletici shebab in jeans e canottiera che cantavano e ballavano in una qualche catapecchia trasformata in teatrino. Nel frattempo, pieno della peggior saccenza occidentale, piagnucolavo sulla Palestina, espugnata più ancora che dagli israeliani, dai modelli culturali dell’occidente. Il taxi si fermò davanti ad una struttura molto grande, moderna, avveniristica direi quasi. Toh – pensai – li hanno ospitati quelli dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei profughi. Sbagliato. Quello era il teatro. Come come? In una regione come la Cisgiordania dove non hanno certo i miliardi da investire in edifici, fosse solo perché gli israeliani gliene demoliscono in media 1000, dico 1000 ogni anno, possiedono un teatro che neanche noi a Bologna l’abbiamo così? Entro. La mia amica mi guida ai nostri posti. Sono circondato da centinaia di uomini, di donne e soprattutto di bambini. Vestiti bene, vestiti a festa, eccitati, vocianti. Se la chiacchierano, se la ridono, sembra un mercato, arabo naturalmente. Lo spettacolo tarda ad iniziare. La mia amica mi spiega che quella è l’ultima replica, e dunque stanno aspettando maestre con nidiate di bambini che sono in ritardo. In ritardo nonostante siano partite al mattino presto per giungere in tempo. Al mattino presto da Nablus, o da Jenin, o da Tulkarem, da posti cioè a non più di cento, cento trenta chilometri di distanza(1). Il problema è che, con tutti i check point, può essere come farne migliaia… E gli israeliani sanno bene quando è il caso di metterne uno volante, di check point, di quelli che spuntano all’improvviso… perché magari è giorno di esami all’università araba di Birzeit oppure perché c’è il funerale di un palestinese importante…

Ma torniamo in teatro: un uomo davanti al palco fa un annuncio, quindi finalmente le luci si abbassano. Dal buio emerge un bambino: è il narratore. Racconta, così mi spiega la mia amica, che il vecchio re morente, nel passare il regno alla figlia, le profetizza che se entro un mese non riuscirà a portare il sole nel palazzo, il regno andrà in rovina. Classica fiaba insomma. Recitata, danzata e cantata da decine di bambini. (Mi sta commuovendo il loro canto di angeli o il pensare che domani saranno a tirar pietre contro un blindato israeliano?) La principessa le tenta tutte per fare entrare il sole nel palazzo ma senza successo, così si rinchiude nella torre preparandosi al peggio. Nel frattempo un mendicante con la lanterna giunge al muro di cinta del palazzo, dicendo di avere la soluzione. Ma le guardie, come nella miglior tradizione, lo respingono. L’indomani quando la principessa viene a sapere del mendicante, ordina subito di farlo cercare. Purtroppo però, come in tutti i regni che si rispettino, di mendicanti con lanterna ce ne sono migliaia. Così quando si tratta di farli entrare tutti a palazzo, alla principessa non resta che fare abbattere il muro di cinta, con la bella sorpresa che senza il muro di mezzo, il sole può finalmente entrare indisturbato nel palazzo. Il regno è salvo. Un classico lieto fine di una classica fiaba. Se non che, quando i bambini incominciano a fare l’azione scenica di abbattere i blocchi che formano il muro, un uomo alla mia destra si alza in piedi e inizia a cantare. Allora si alza anche una signora col velo e inizia a cantare anch’essa, poi un terzo, un quarto… dopo un minuto l’intero teatro è in piedi a cantare a squarciagola insieme ai bambini che nel frattempo continuano la loro azione scenica. Centinaia di persone, donne, uomini, vecchi, bambini, sul palco, giù dal palco, dietro il palco, tutti insieme, in teatro, uniti in un canto nato spontaneamente in platea…

Quando si riaccesero le luci, dopo interminabili applausi, il direttore d’orchestra e i bambini non se ne andavano dal palco. Se ne stavano lì a confabulare fino all’annuncio che, siccome molte delle maestre con annessi bambini erano ancora in viaggio, di lì a venti minuti, giusto il tempo di bere un bicchier d’acqua, avrebbero ripetuto lo spettacolo. Quel pomeriggio lo rifecero quattro volte con persone che continuavano ad arrivare da tutta la Cisgiordania e identico si ripeteva il canto finale tutti insieme. Finito tutto, chiesi alla mia amica che cosa cantavano, ed anche come facesse il pubblico a sapere la canzone dello spettacolo. Lei mi sorrise e mi spiegò che non era il pubblico a sapere la canzone dei bambini sulla scena, ma erano i bambini sulla scena a sapere la canzone che aveva intonato il pubblico. Era una canzone di resistenza contro il muro che Israele in quegli anni stava costruendo in Cisgiordania. In sostanza, il pubblico aveva riconosciuto in quella fiaba di re, principesse e mendicanti una chiara allusione alla lotta per la libertà del loro popolo, lotta che ha nella distruzione del muro un obiettivo fondamentale. Io le dissi che non ci sarei mai arrivato a questo collegamento, che quella era una fiaba per bambini mica uno spettacolo politico, e per giunta scritta molto tempo prima… Lei mi liquidò dicendo: “Vedi, qui in Palestina anche Cappuccetto rosso è politico”.

Da quella volta sono tornato parecchie volte in Palestina e sempre ho trovato conferma di quella frase. Tutto viene interpretato in chiave politica. Dopo gli spettacoli ci sono discussioni molto accese. Quando ho diretto la Metamorfosi di Kafka a Betlemme anni dopo il mio primo viaggio, i miei attori, palestinesi, mesi dopo mi hanno raccontato del putiferio che si scatenava nei dibattiti successivi alle repliche. La gente chiedeva conto del senso: “Ci stiamo trasformando in scarafaggi?” La corazza dello scarafaggio/Gregor è la maschera da terroristi dietro alla quale non riescono a vedere che siamo persone? La famiglia finisce per rifiutare Gregor perché smette di aderire alla lotta? Oppure i familiari sono i paesi arabi che gradatamente hanno voltato le spalle a Gregor/Palestina? Quando gli svuotano la stanza dai mobili, dalle sue cose è come quando a noi ci tagliano gli ulivi? Il violino che la sorella suona equivale al nostro stare qui ora a vedere uno spettacolo? La stanza da cui lo scarafaggio non può uscire è Gaza? Il padre con la sua divisa sono gli arabi israeliani cittadini di serie b, umiliati pur di lavorare?

Non ci provavano neanche i miei attori a dire che era soltanto una mia lettura di Kafka. Qui la responsabilità non è tecnica. Qui tutto diviene politico. Altro che arte per l’arte. Altro che letture personali, problemi di stile o intimismi. Qui la collettività, il pubblico, la politica fanno irruzione dentro l’intimo, dentro l’artistico come i soldati dentro alle case, lo portano fuori, lo sviscerano, rivoltano il dentro fuori e così lo trasfigurano in “figura” politica su cui confrontarsi. E questo avviene quasi a prescindere dallo spettacolo, è una sorta di quadro di riferimento degli spettatori. È quello che si aspettano dal teatro. Loro, l’esperienza teatrale, la inquadrano così. Lo spettacolo c’entra per forza con quelle che sono le loro battaglie quotidiane, le loro esistenze in seno all’occupazione. Uno spettacolo è un luogo di confronto pubblico, politico. Questo è quello che vanno cercando. Questa è la cornice dentro cui ne collocano il senso.

Appunti sparsi di ritorno dalla Palestina.

Attraversano check point per vedere uno spettacolo. Dal pubblico sale un canto a cui gli attori si uniscono. Discutono ore sul senso di quello che hanno veduto. L’illuminazione arriva quando ne si è in cerca. Cercano un’esperienza dotata di senso e difatti la trovano. E noi? Spesso non andiamo oltre il cercare di passare una bella serata. Dacci torto con quel che si lavora. Vediamo che possibilità ci sono? Moltissime. Bulimia da stimoli. Menù molto ricco, troppo ricco. Troppa scelta. Attenzione però: se lo spettacolo diventa una delle tante opzioni sul menù, finirà per venire valutato con i criteri propri delle altre opzioni. Una specie di media, di compromesso. Non troppo di questo… non troppo di quest’altro… E difatti i giudizi da dopo spettacolo, ricordano sinistramente quelli con cui valuto la pizza da dopo spettacolo. O il maglioncino che mi sono messo per andarci. Giudizi più simili ad un pulsante premuto, alla crocetta su un test (sì/no, carino/noioso, mi è piaciuto/non mi piaciuto) che all’elaborazione di un’esperienza dotata di senso. Ma c’è da stupirsene? Per tutto è così. Tutto è sempre più commensurabile con tutto. Tutto diviene uguale a tutto. Tutto diviene merce. Anche l’esperienza diviene merce. Merce usa e getta. Chiedo un’esperienza usa e getta. In Palestina ci hanno messo ore ad attraversare i check point che li dividevano dallo spettacolo. Caso mai non fosse stato importante prima di partire, lo è diventato di sicuro quando sono arrivati. Ci hanno pensato gli israeliani a farglielo diventare importante. Oppure mi viene in mente quello che ho visto in Polonia. In Polonia è normale che uno spettacolo duri 3 ore. Già, ma in Polonia uno non sceglie di andare a teatro al posto di andare al cinema, o a una conferenza, o a cena con gli amici. Se uno va a teatro, va a teatro e si arma del bagaglio concettuale e di aspettative che ne consegue. Come uno che decide di scalare una montagna, non una collinetta qualunque, si porta gli attrezzi e mette in conto la fatica. Poi però che vista da lassù…(Nota per i biografi: quando 10 anni fa mi sono accostato alla regia, anche io facevo spettacoli da 3 ore. Ero ancora un disadattato. Ora non me lo sognerei mai. Ora mi sono adattato.)

Ora i tempi dello spettacolo sono sempre più brevi. Tempi da tv, soglie d’attenzione da nani da giardino, tempi usa e getta. Fatto uno, avanti il prossimo. Niente decantazione dell’esperienza. Niente vuoto, niente silenzio nel mezzo. Niente intervallo, come direbbe Dorfles. Presto mangiato, presto digerito. L’importante è che non restino scorie. Anche perché un’esperienza più ingombrante non saprei dove mettermela. Forse se potessi condividerla con altri me ne farei qualcosa… il problema è che sono solo. (Prima della Palestina, prima di quel canto non avevo mai pensato all’esperienza dello spettatore occidentale, in termini di solitudine.) Se anche in me avvenisse un risveglio, se anche dopo quello spettacolo guardassi le cose in modo diverso, poi cosa me ne farei? Probabilmente mi darebbe più problemi che altro. Meglio spegnersela dentro quest’esperienza. Tanto cosa cambierebbe? Avvertirei solo impotenza. Avvertirei di non potere nulla contro la perfezione di quest’orologio. Sono solo. Contro l’onnicomprensivo incastro di spazi, tempi e specializzazioni che è questo mio mondo. Gli ingranaggi non possono avere scarti, pena l’esclusione. No. Non sento di avere margine per un cambiamento. O per esperienze extra-ordinarie. (Se non in ferie beninteso!) Devo normalizzarla questa esperienza, smussarla, ridimensionarla, renderla ordinaria, altrimenti non mi ci sta in una vita ordinaria. Ho il mutuo da pagare. Mica scherzi, mica grilli per la testa. Anche per questo lo spettacolo deve essere un’esperienza che non travasi il suo ambito. Tecnico. Come anche la lezione del postmoderno sembra suggerirci. I libri parlano di libri. Gli spettacoli di spettacoli. Del mio vissuto, io spettatore apro soltanto il cassetto in cui sono contenuti altri spettacoli, altri attori, altri stili, altre esperienze da spettatore insomma. Dentro questo sfondo colloco quello che vedo. Non si va a teatro per mettere in discussione come si vive. Quella è roba da incivili e io invece ho la civiltà alle mie spalle. Sulle mie spalle. Questo è lo sfondo su cui, ciò che vedo, si deve stagliare differente se vuole avere legittimazione ad esistere. Uno sfondo di settore. Specialistico. Non altro. Come in qualunque altro ambito, la responsabilità è tecnica. Come per qualunque altro prodotto, quello che chiedo allo spettacolo è di essere fatto, allo stato dell’arte (allo stato di quello che l’Istituzione giudica arte) con competenza. In base a quale visione del mondo, a quale orizzonte di senso, con quale idea di uomo insita dentro o con quali conseguenze per le persone, non mi riguarda.

E poi anche se mi riguardasse è così difficile prendere posizione, così difficile orientarsi in questo mondo. In Palestina no, in Palestina è più facile schierarsi. In Palestina hanno l’occupazione. Recitano, discutono, ma quando escono dal teatro lo sanno (o almeno lo sapevano durante i miei primi viaggi, ora non so) a chi tirare le pietre. Ma qui non si capisce niente. Qui si pensa a destra anche quando si pensa di pensare a sinistra. Per fortuna c’è il teatro impegnato. Per fortuna c’è ancora chi pensa in termini politici. E così facendo mi offre un’appartenenza. Chiedo al teatro di darmi un’appartenenza. In questa crisi della politica, almeno mi riconosco nel discorso di un artista. Meglio di niente. Attenzione solo a una cosa però: a quando, in latenza di piazza, il teatro diventa la piazza. Il teatro può essere prima della piazza, per infiammarci e farci scendere in piazza, o dopo la piazza per aiutarci a discernere, a comprendere… ma non al posto della piazza. Se no, con un effetto paradossale, aiutiamo lo status quo. Troppo presi ad animare riserve o parchi giochi per chi la pensa diversamente, con la coscienza a posto, finiamo per disertare i campi di battaglia decisivi. Infine un’ultima considerazione. Forse quella a cui tengo di più tra quelle nate in Palestina. La Palestina è un luogo pericoloso. Le persone rischiano ovunque. In questo senso non c’è un dentro o un fuori. Si è sempre dentro. Non c’è un luogo al sicuro in cui guardare da fuori il pericolo. In cui essere soltanto spettatori. In cui instaurare un regime di separazione con quello che si vede. Si è sempre compresenti. Non c’è schermo. Non c’è cornice che divide chi guarda da chi è guardato. Si guarda e al contempo si è guardati. Guardo la cosa e la cosa mi ri-guarda indietro. Siamo compresenti nel pericolo. Mi riguarda ciò che guardo. (Bella parola “riguardare” ora che sembra che non ci riguardi più niente, ora che, a dirla con De André, tutti ci crediamo assolti). Dunque contemporaneamente sono soggetto che guarda e oggetto guardato. Dentro e fuori. Esperienza, anche nella parola, condivide qualcosa conpericolo. Una compresenza. Un guardare giocare che diventa un mettersi in gioco. E questo naturalmente si riverbera anche sull’esperienza teatrale. “Ci stai dando degli scarafaggi?” Così reagivano gli spettatori della Metamorfosi fatta in Palestina. La cosa che vedo sul palco mi sta guardando e guardandomi mi dice chi sono. Mi riguarda. Mi definisce con lo sguardo. Diverso ciò che succede guardando la televisione. Guardo senza essere (ri)guardato. Io guardo le immagini, ma le immagini non guardano me. C’è separazione. C’è uno schermo. Io sono al sicuro. Non sono compresente all’esperienza. Tutto questo mi fa venire in mente il naufrago del “De rerum natura” di Lucrezio che contempla la tempesta dal sicuro della riva. La tempesta diviene spettacolo proprio perché è al sicuro a guardarla. C’è separazione. C’è distanza. È spettacolo proprio perché c’è distanza. Godo dello spettacolo perché c’è distanza, perché sono al sicuro. Come ci spiega Blumenberg, questa immagine è quasi l’archetipo della associazione spettacolo-distanza. Quello che incornicio come spettacolo, lo incornicio come distante. E allora sancisco un regime di separazione e di contrapposizione. Tra essere spettatore ed essere attore. Tra passività e attività. Tra estraneità e coinvolgimento. (E perché no? lasciandosi un po’ prendere la mano, tra frontalità (visione prospettica) ed essere in mezzo. Tra previsione ed essere colto di sorpresa, alle spalle, dal (contrat)tempo). Questa sembra essere una struttura profonda che determina il nostro modo di essere spettatori. A maggior ragione quando nella stessa direzione ci spinge il regime della televisione. O il regime della politica. O il regime dell’organizzazione per settori specialistici della nostra società. Tutto sembra dirci: guarda e non fare. Guarda e lascia fare a chi è deputato a farlo. Guarda e sta al sicuro. Non vedi lo schermo? Lo schermo è la cornice che ti dice che è uno spettacolo, cioè qualcosa da guardare e basta. Lo schermo ti protegge. L’esperienza è pericolo. Là fuori c’è la tempesta. Tira un sospiro di sollievo per esserne fuori e goditi lo spettacolo.In opposizione a questi automatismi, a questa specie di patto di distanza, o di “non-riguardanza”, o di irrilevanza che, sempre di più, sembra debordare e contagiare anche ambiti in cui non era così, nasce la ricerca del teatro dello spettatore.

Il teatro dello spettatore ha come oggetto di attenzione l’esperienza dello spettatore. È lo spettatore il suo protagonista. Di lui si prende cura. Non lo pensa soltanto come uno spettatore occhiorecchio a cui fare vedere e ascoltare cose. Lo pensa anche come dotato di un corpo la cui posizione nello spazio può essere portatrice sia di una conoscenza che di un significato. Un corpo capace a suo modo di attivarsi e attivandosi di cambiare cose. Dotato di mani, che possono trasformare la sensazione di lontananza in sensazione di vicinanza. Lo pensa dotato di un vissuto, importante, che potrebbe essere ancora più importante se condiviso con gli altri, per esempio, scrivendo. Lo pensa come membro di una comunità con cui condividere rituali, parole, memoria. Spesso lo pensa come un viaggiatore. Uno di quei viaggiatori di una volta che per conoscere, ma soprattutto per conoscersi, devono abbandonare i luoghi noti, il familiare, gli abiti consueti e superare la soglia, superare il confine e trovarsi in un luogo diverso dal solito, trovarsi fuori ruolo, fuori abito, fuori habitat, fuori abitudine, disambientati, nudi a se stessi, vedere se stessi nell’essenzialità, sprotetti, sviscerati, rivoltati, vedere il dentro da fuori e il fuori da dentro, quindi fare ritorno al proprio mondo, ma con un’altra prospettiva, un’altra percezione di sé. Per questo, il teatro dello spettatore gioca molto coi confini. Per questo chiede spesso agli spettatori di uscire dalle cornici (che in un certo senso sono confini) familiari. Di oscillare tra il dentro e il fuori. È come se dicessi allo spettatore: il tuo luogo è la platea e io ti chiedo di uscire da quel confine e salire sul palco. Una scenografia non si tocca e io ti chiedo di toccarla. Di giocarci. Quell’oggetto si guarda da fuori ma se ti avvicini scopri uno spioncino e il fuori si trasforma in un dentro. Il tuo ruolo sarebbe guardare, superalo e scrivi, ruolo che sarebbe il mio. Scrivi la tua realtà e la rivoltiamo in storia mitica. E ora torna ad ascoltare una storia, che però, in virtù di quello che hai fatto, non sarà più la stessa. (A proposito di attività che mutano poi il modo con cui riceviamo, non so se in modo proprio, mi vengono in mente alcune riflessioni di Roland Barthes sulla fotografia. Il fatto di avere noi stesso fotografato, ci dà nei confronti delle foto altrui una sensazione di veridicità? Vicinanza? Credibilità? simile a quella che noi abbiamo provato con l’oggetto da noi fotografato.)

La storia verrà raccontata da un narratore, che però anche lui continuamente entra ed esce dalle cornici dentro cui sei abituato a inquadrarlo. Ora per esempio è narratore in quanto prima è stato spettatore. È stato spettatore, in Nicaragua, di qualcosa da cui si è sentito guardato, al punto da venirne ridefinito. Si è sentito mutare in testimone. Quindi, di ritorno, ha sentito la necessità di condividere con chi era restato quello che aveva visto. Di cui aveva fatto esperienza. Uno spettatore (cioè qualcuno che vede) che diventa testimone. Uno spettatore che in quanto testimone (e non semplicemente perché quello è il suo mestiere) diventa raccontatore. Uno spettatore cioè che per il fatto di guardare, sente il dovere di “respondere”, di reagire a quello che guarda, raccontando. Il mondo nella sua estraneità entra nella sua sfera, lo colpisce e lui reagisce, “responde”, si sente cioè responsabile, deve mettere in comune, fare sapere ad altri spettatori. Ma farlo in modo tale che anche questi vincano la distanza; che anche questi cerchino di non essere spettatori per ruolo, per convenzione; che da fuori, entrino dentro, ed entrando si portino la propria realtà come il narratore ha portato la sua, di uomo, non (solo) di professionista. E per fare questo, per aiutarli a connettersi con un loro vissuto, con quello che direttamente li riguarda, chiede loro di “rispondere” a domande in loro presenti in quanto universali, di “rispondere” cioè di reagire ad oggetti che, con la loro strana, materiale presenza li interrogano, chiede loro di rispondere, di uscire da un ruolo passivo, di attivarsi e scrivere, come lui, lo spettatore divenuto testimone, ha scritto. Queste riflessioni anche per dire che il teatro dello spettatore è tale non solo perché mette lo spettatore al centro dei suoi esperimenti (ovvero sia di modelli ricostruiti in cui si cerca di riprodurre il campo di forze dell’esperienza originaria) ma anche perché si interroga sul ruolo dello spettatore non solo in senso teatrale ma anche e soprattutto in senso più ampio. Quando lo spettatore diviene testimone? Che implicazioni reca con sè la tradizione della posizione frontale dello spettatore che ci deriva dalla prospettiva rinascimentale? Come cambia il ruolo degli spettatori ora che ci chiedono di esserlo ovunque, davanti agli schermi, davanti alle vetrine, davanti ai monitor, davanti ai display dei cellulari, davanti ai cartelloni pubblicitari? Ora che sempre di più quasi ogni aspetto del reale è organizzato in forma di spettacolo al punto che qualcuno ha detto che la realtà sia scomparsa dietro alla sua immagine? Anche in ragione di questi interrogativi il teatro dello spettatore paradossalmente chiede allo spettatore di non essere spettatore. Non per ruolo. Non per convenzione. Per questo, caro spettatore ti chiediamo di agire non come uno spettatore. Ci interessa dare valore alla persona compressa dentro il ruolo. Al suo vissuto. Al suo fare. Per questo ti chiediamo di agire. Di fare attività non da spettatore. Per questo ti chiediamo anche di pensare questo rito non come uno spettacolo. Questo non è uno spettacolo. È un non spettacolo, come l’ha definito Franco Quadri. E allora se non è uno spettacolo cerchiamo di capire cosa è. O meglio cosa può essere, come avrebbe suggerito Gregory Bateson, il mondo dei possibili si apre. Insieme, agiamo quello che non è.