Pietro Floridia: Paesaggio con spettatori.

Appunti su uno spazio scenico da viaggio

A partire dalla parola “posizione”.

E quando sono formulato, appuntato a uno spillo, quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro, come potrei allora cominciare a sputare fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini? Come potrei rischiare? T.S. Eliot

La posizione dello spettatore… il fatto che io non la dia mai per scontata, il fatto che al povero spettatore, nei miei lavori, quasi mai sia dato di starsene a sedere in pace sulla sua comoda poltrona, dipende da tutta una serie di associazioni, retrogusti e “vaghezze” che la parola posizione mi smuove dentro.In certi casi la parola “posizione” la associo a “punto di vista”. Letteralmente, al punto da cui si guarda, quindi mi chiedo a chi somigliamo mentre guardiamo una data materia da un dato punto? Ad un guardiano che controlla? Ad una preda paralizzata dalla paura che spia la venuta del presunto predatore? Ad un guardone curioso? Ad uno scienziato che studia? A chi si sente superiore a ciò che guarda? La decisione in merito alla posizione che lo spettatore assumerà durante lo spettacolo, spesso viene a dipendere da riflessioni circa le valenze etiche o politiche che la posizione nello spazio reca con sé. Cerco di dare corpo, fisicità, al rapporto tra il guardante e il guardato e alle sue conseguenze in termini di responsabilità. Quando invece scelgo di mettere in movimento lo spettatore, di fargli cambiare più volte nel corso dello stesso spettacolo il punto di osservazione, succede anche per reazione ad un retrogusto completamente diverso che la parola “posizione” mi evoca.

Se a dirla con Calvino “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, io vengo da un deserto fatto di posizioni immobili come fortini. A cui arrivare, fermarsi, quindi da difendere strenuamente. La parola “posizione” mi parla di una concezione della vita come di un campo di battaglia, in cui se non ti fai una buona posizione sei perduto. Oppure mi parla di una società a piramide in cui più ti posizioni in alto meglio stai. In ogni caso ha un retrogusto che sa di potere, di valore degli uomini delegato alla posizione che occupano ma soprattutto sa di staticità. Come se il movimento, il cambiamento, l’attraversamento di soglie e di status, dovesse riguardare solo la stagione giovanile della vita, o addirittura fosse soltanto strumentale all’arrivare, quindi, una volta arrivati, uno scavasse il solco attorno a sé, ergesse mura, definisse il proprio campo di controllo, buttasse fuori quello che stona, e si fermasse.Intendiamoci, non credo che questo sia da evitare in assoluto, credo soltanto che nella nostra società questa polarità sia divenuta sovradimensionata rispetto a quella opposta: quella del movimento, della ricerca del non familiare, del disequilibrio, del dubbio.

Perciò se, come credo, il teatro ha una delle sue principali ragioni d’essere nel produrre un’eccezione, una sospensione nei valori dominanti, una differenza, a volte addirittura un antidoto, allora, convinto della potenza del corpo nel processo di comprensione di un fenomeno, chiedo allo spettatore di abbandonare anche fisicamente la sua posizione, di superare i confini, (alias le cornici), definiti, sicuri, comodi, tradizionali, ipergestiti, e invece di mettersi in movimento, di varcare soglie e status, di assumere posizioni in cui sia, a intermittenza, straniero al suo ruolo abituale, straniero al suo spazio.

Lo spettatore straniero. Straniare il guardare.

Essere straniero al suo spazio abitudinario, al suo ruolo. Lo spettatore abbandona il suo luogo naturale. Quello in cui è invisibile. Quello in cui il suo guardare è dato per scontato. E sale sul palcoscenico. Entra nella scena. Entra dentro al quadro.Dentro al paesaggio con spettatori. Credo che lo spettatore sia un tema sempre più fondamentale per i nostri quadri.

L’homo spectator è l’uomo del XXI secolo (come già da decenni qualcuno aveva previsto). Va indagato nelle specificità del suo guardare. Va indagato come sta cambiando il suo guardare.

Spesso è il guardare l’unico legame che abbiamo con il mondo. Sempre il nostro guardare modifica la materia guardata, ha delle conseguenze su di essa. E questo produce responsabilità. Così come produce responsabilità ciò che sappiamo per il fatto di avere guardato.

Al contrario nella prassi quasi mai dal guardare nasce un moto di risposta, un senso di responsabilità. Sempre di più lo associamo ad un sentimento di lontananza, di indifferenza. Perciò trovo importante scomporre il guardare straniarlo metterlo sul palcoscenico sotto il microscopio sotto le luci farlo oggetto di riflessione problematica connetterlo alla materia trattata e ragionare su come questa cambi se guardata fare guardare allo spettatore se stesso che guarda toglierlo dal buio, dal suo luogo “normale” dunque insignificante e metterlo nella cornice del palcoscenico dove tutto significa. Anche il suo guardare.

 

 

Lo spettatore come spettacolo. La responsabilità del significare.

Il simbolo è un compito. H.G. Gadamer

 

Credo che tra i mali che ora ci affliggono, uno grave sia lo schiacciamento dentro noi stessi, dentro un orizzonte di senso delegato ed esaurito alla sfera individual/carrieristica, prigionieri più o meno consapevoli di schemi mentali e agenzie fornitrici di senso prêt-à-porter che mortificano il pensarsi liberi e portatori di scelte.

Credo che possa farci bene l’esercizio mentale di tendere ad un senso proprio. Pensarci su uno sfondo più ampio: il mondo, la storia, gli altri, pensarci come portatori di un significato.

Credo ci giovi l’esercizio di una tensione verso qualcosa di alto e di difficile che ci oltrepassi. Il corpo a corpo con una sfida che tiri fuori il meglio di ciascuno di noi.

Perciò invito gli spettatori sul palcoscenico a varcare la soglia, ad entrare dentro la cornice in cui tutto significa, e soprattutto a fare i salti, anzi le capriole mentali che questo comporta.

Nel momento in cui entra nella cornice dello spazio scenico lo spettatore diviene spettacolo, lo spettatore acquisisce il regime degli altri segni presenti entro quella cornice. Ovverosia accede e compartecipa al regime simbolico degli altri elementi che abitano il palcoscenico.

Incomincia a rappresentare altro-diviene rappresentante di altro-non soltanto portavoce di se stesso-non soltanto in vece propria

bensì parte di un tutto-un tutto là fuori che grazie a questo cambio di prospettiva-incomincia ad acquistare rilevanza:

un mondo al di fuori di ciascuno di noi, con il quale gli si chiede di connettersi, di creare una tensione, un legame.

(In questo cerco di inscrivermi nella ratio di quegli esercizi brechtiani che consistono nel narrare di sé in terza persona come tentativo di pensare se stessi nella Storia)

È una specie di invito, un invito a tendere verso il fuori, forse a crearlo quel “qualcos’altro” di cui farsi parte e rappresentante

una amorevole investitura, a chi si pensa che possa farcela, (che opera d’arte è l’uomo…)

è chiedere tanto, un grande salto nel modo di pensare se stessi, una grande responsabilità

pensarsi nelle proprie connessioni col mondo, pensarsi come portatore di un significato.

Caro spettatore

è anche per questo che ti chiedo di scrivere, di esprimere il tuo pensiero, quello che provi o di raccontare episodi della tua vita.

è anche per questo che quello che hai scritto lo connetteremo ad altri pensieri, che arrivano dall’altra parte del mondo.

Cerchiamo di dare forma ad un rituale di connessione del proprio vissuto al mondo, di connessione della propria storia alla storia di altri uomini, di creazione di un senso condiviso attraverso lo scambio di racconti. Racconti che trasfigurano le biografie individuali, inscrivendole in uno sfondo più ampio, facendole diventare costellazione.

La divisione del lavoro opera anche nel lavoro di produzione del senso. Ci vengono dati modelli preconfezionati. Come se ci venisse detto: di questa cosa che ti è successa, questo è il senso secondo la legge, questo secondo la medicina, questo secondo la stampa, questo secondo gli artisti, questo secondo il pensiero di destra, questo secondo quello di sinistra…

E a me cosa resta? Cerchiamo di riappropriarci dell’attività di produzione di senso, attraverso il racconto, attraverso la scrittura, attraverso la collocazione di quanto ci accade in un nostro sfondo più ampio.

Nello spettacolo “La strada di Pacha”, per esempio, questo rituale parte da una gigantesca mappa di Managua che però sulle strade reca bigliettini con sopra scritte le parole di chi invece qui vive, qui scrive. In Pacha l’accesso a questo spazio di connessione è affidato a un narratore/medium/ponte/interprete che riceve i pensieri che gli spettatori hanno scritto, li ramifica, li amplifica, li ripensa e ripensandoli, riraccontandoli li scioglie dentro ad una narrazione ben più vasta fino a ricoagularli connessi a quanto è avvenuto dall’altra parte del mondo.

È importante che sulla scena sia presente il mondo.

Nell’organizzazione dello spazio scenico cerchiamo di ascoltare la materia/mondo da cui è partito il cammino. Partiamo da un’esperienza. Da un attraversamento di un pezzo di mondo.

Come un secchio ci immergiamo in una realtà, per riemergerne poi pieni della materia più eterogenea.

Il nostro vissuto o forse quello di cui come uomini andiamo in cerca è la calamita che attira certa materia e non altra. Ce ne lasciamo penetrare, ci affidiamo a lei, cerchiamo di dimenticare le forme, cioè i contenitori, che già conosciamo. Lasciamo che le forme siano il precipitato della materia che ci è entrata dentro. Che si spinga il più lontano possibile. Che risvegli di noi zone che non conosciamo. Noi siamo medium. Dobbiamo lasciarla fare, attendere che si coaguli in forme che ne incarnino la diversità.

Scomporre la realtà e ricomporla, come in un gioco, in forme che ne restituiscano i rapporti di forza, in forme che ne permettano la condivisione.

Tra queste, la forma dello spazio è di centrale importanza. Lo spazio inteso come campo di un’esperienza. Lo spazio inteso come struttura su cui si proietta un pensiero. Lo spazio inteso come specchio dei rapporti tra uomini. Lo spazio inteso come correlativo fisico di una drammaturgia. La materia/mondo si trasforma in forme metaforiche e stilizzate che andranno a comporre lo spazio scenico dentro il quale lo spettatore penetrerà.

La Palestina per me è stata arcipelago di enclavi separate, isolate, accerchiate da check points, muri e colonie. I movimenti principali erano il superamento delle barriere e il resistere: aggrapparsi alla terra come tanti ulivi per non venire sradicati dal vento, dall’(e)vento ovvero dalla venuta, dall’occupazione del gigante israeliano. La Bolivia buco nella terra, orifizi della madre terra, ferite attraverso le quali donare e ricevere, miniere dentro cui entrare e uscire, con cui scambiare vita e morte, immergersi per non venire schiacciati sotto un cielo troppo basso. Il Nicaragua per me è stato soprattutto strada. L’incontro col Nicaragua, l’incontro con Pacha è stato soprattutto incontro con la strada.

Pacha ha vissuto una vita intera per strada. Ne ha vissuto le trasformazioni, le possibilità, i pericoli, gli orrori. La strada è stata il campo in cui si è giocata la vita. Per uno come me, che veniva da luoghi chiusi, che passava la vita al chiuso di un teatro, di una casa, di un carattere, è stato come un aprirsi.

Aprirsi all’aperto della strada è il contrario di chiudersi in casa. Il contrario della protezione del nido, della distanza di sicurezza, della solitudine da appartamento o da carriera, il contrario della posizione, del solco nella terra che fonda e che appropria, della definizione che fissa e scaccia ciò che non rientra.

La strada attraversa i confini. La strada è movimento, invenzione della vita, improvvisazione in base al nuovo che si attraversa. La strada è di tutti, è condivisione con gli altri, è incontro con lo sconosciuto. Con quello che buttiamo fuori di casa. Con il pericolo. Con il brutto. Con la morte.

Ma se è incontro con la morte è anche incontro con un senso. Dunque con un destino.

Uno spazio da attraversare.

Dopo tutto, il mondo è intorno a me,non di fronte a me.M. Merleau-Ponty

Lo spazio del teatro dello spettatore spesso è pensato come spazio del viaggio.

Lo spazio del viaggio è

uno spazio da attraversare,

non uno spazio in cui stare

e neanche uno spazio da guardare.

Vi si entra dentro. Nel teatro dello spettatore lo spazio chiama dentro lo spettatore, lo spazio lo porta dentro, lo spazio lo importa, la materia divenuta spazio chiede allo spettatore di entrarci dentro, non soltanto di guardare da fuori

è uno spazio da attraversare, uno spazio in movimento, uno spazio che scorre.

In questo senso è il trasferimento in termini spaziali di strutture che appartengono al tempo e soprattutto alla sua organizzazione “sensata”, ovvero al racconto.

Nel teatro dello spettatore lo spazio è organizzato in termini di racconto. Alle volte un racconto lineare e allora lo spazio sarà organizzato in un percorso lineare in una successione, in un percorso obbligato per lo spettatore in cui è stato previsto cosa succede a cosa.

Altre volte un racconto di possibili, di “sentieri che si biforcano”. Incarnazione di un tempo simultaneo, sincronico e non diacronico e allora lo spazio sarà uno spazio che avvolge lo spettatore, lo circonda, con un’organizzazione “a bosco”, così che tra i tanti sentieri possibili,sarà lo spettatore a costruire/percorrere il proprio.

Sempre sarà uno spazio intermittente, non uno spazio continuo né uno spazio di giustapposizione di sottospazi omologhi. Non c’è un continuum spaziale, in modo che non ci sia nemmeno un continuum mentale. Le differenze devono essere accentuate. Devono esserci salti, fratture, dislivelli…che facciano accedere a spazi di qualità diversa, che chiedano scarti di cornice, continue rinegoziazioni delle regole del gioco, continue ridefinizioni di sé.

Come abbiamo detto “La strada di Pacha” incomincia con una mappa. Una mappa per fare entrare gli spettatori dentro un altrove. L’attore accoglie gli spettatori come una guida, come un interprete, non di un testo, ma di un mondo, o forse di un mondo come da intendersi come testo. Li accoglie sulla soglia: vi chiedo di entrare ma non nel mondo che vi è proprio, in platea, alla ricerca della vostra poltrona, del vostro posto, della sicurezza della posizione che vi è propria. No, vi chiedo di entrare in un altrove, ed ecco che per compensare un poco il vostro smarrimento,il vostro essere stranieri in questo altrove, ad attendervi una mappa,una mappa dentro la quale ci sono le orme di persone che come voi hanno attraversato questo spazio. Sulla mappa infatti ci sono i biglietti scritti da altri spettatori che precedentemente hanno visto lo spettacolo, partecipato a questo rito, giocato a questo gioco.

E ora vi chiedo di seguirmi, di attraversare la soglia del palcoscenico e di entrare sul palcoscenico. Vedrete degli oggetti, delle macchine, degli assemblaggi di ferro arrugginito che compongono il museo di Pacha, la strada di Pacha, ognuno di questi oggetti infatti corrisponde ad un episodio della vita di Pacha, ognuno di questi oggetti contiene una domanda. Se vi va di rispondere con le vostre riflessioni, coi vostri pensieri fatelo liberamente, da questi vostri scritti partiremo dopo nel raccontare le storie di questa donna. Un’ultima cosa, molti di questi oggetti contengono spioncini in cui guardare, manovelle da girare, porticine da aprire, giocateci liberamente. Buon attraversamento.

Lo spettatore è dentro allo spazio scenico, lo spettatore lascia le sue tracce sulla Strada di Pacha, cammina, tocca le cose, vi guarda dentro, scrive, gioca, guarda gli altri spettatori, ci chiacchiera…Il viaggio è incominciato.

Nel teatro dello spettatore lo spazio è pieno di soglie, di introduzioni, di preamboli

di anticamere in cui cambiarsi, di camere iperbariche in cui decomprimers,i di spazi liminari o mediali in cui sdoppiarsi,

in cui non vige l’aut aut ma vige l’et et

E’ una terra di nessuno, in cui si fa esercizio di libertà dalle definizioni

perchè le cose non sono quello che sono, ma quello che possono essere

in cui si fa esercizio di oscillazione tra opposti, in cui si fa esercizio di compresenza.

Lo spazio della compresenza 

Lo sguardo del testimone.

È uno spazio della compresenza

Non uno spazio della separazione.

La compresenza mescola le categorie:

il guardare con l’agire

il vicino col lontano

l’intimo con l’universale

lo spettatore con l’attore

il guardare coll’essere guardati.

Si è in compresenza coll’attore.

Non invisibili nel buio di una platea.

Si è presenti. In luce. Guardati

mentre si guarda chi racconta.

Così come, nel caso della “Strada di Pacha”,

anche noi ci sentivamo guardati mentre guardavamo

la donna nicaraguense che ci raccontava la sua storia

i bambini di strada che sniffavano colla

chi lavorava e viveva e dormiva nella discarica.

Chi guarda in compresenza

mentre guarda è riguardato

la materia lo riguarda

da vicino, così vicino

che quasi lo tocca,

così vicino che quasi ci si specchia

nei suoi occhi

negli occhi di chi ci riguarda mentre lo guardiamo.

Ma se questi occhi sono occhi

dissimili da quelli che sempre ci hanno guardato

se sono occhi che abitano l’altrove, che abitano la lontananza

allora attraverso di loro ci vedremo

fuori luogo, fuori fuoco, stranieri a noi stessi.

Il baricentro su cui avevamo impostato la visione di noi stessi si sposta.

E cadiamo.

Crolla la percezione abituale che abbiamo di noi

crolla la definizione che abbiamo di noi

crolla dunque quel muro che ci separa dal tutto

e separandoci ci dà una forma.

Non c’è più vuoto tra noi e le cose.

(è un’esperienza che di solito avviene in viaggio, dove non si è nessuno

oppure in una situazione di potenziale pericolo, dove si torna indifesi come bambini)

Diventa quindi più probabile un’esperienza di “invasione” dell’altro in noi,

di fusione con l’esterno, di un abbraccio che ci impasta.

(alle volte quando si gioca da bambini c’è un siffatto livello di adesione/fusione col mondo, tanto da perdere la cognizione del tempo)

È questa un’esperienza in cui il guardare e l’essere guardati divengono tattili come abbracci.

Nudi nuovamente abbracciati dal mondo.

Nudi una materia altra ci abbraccia e ci marchia con il suo segno, con il suo senso.

Nudi veniamo investiti.

Riceviamo un’investitura che ci trasforma.

È questa un’esperienza in cui più fortemente ci sentiamo.

Sentiamo noi stessi in compresenza, oserei dire quasi in fusione, col mondo.

Un mondo che ci abbraccia.

Un misto di morte e di vita che ci abbracciano.

E abbracciandoci fa sentire a noi stessi con più forza il nostro corpo abbracciato.

Abbracciandoci ci dà forma.

Una forma unica.

Ci marchia, ci segna.

Compartecipiamo del suo senso.

Ne veniamo affetti.

Rinasciamo a soggetti unici per il fatto di avere visto qualcosa di unico.

Rinasciamo a soggetti unici per il fatto di avere partecipato, scambiato, condiviso uno spazio di compresenza, di fusione con una materia significativa.

Diverremo portatori di quella materia.

Diverremo presenze di quella materia.

Essere abbracciati è essere affetti.

Diverremo testimoni.

Siamo in uno spazio ad alta concentrazione,

uno spazio della compresenza

ad alta densità,

che preme al punto da diventare

tattile

siamo dentro una dimensione fisica, reciproca del guardare.

Un abbraccio (di sguardo? Anche, perché no?)

forte

che ci plasma

che ci fa sentire presenti a noi stessi,

ma con qualcosa di estraneo

con qualcosa di radicalmente altro

che proveniva dal buio

dal di fuori della bolla di luce che ci circonda, dentro la quale sappiamo i nomi delle cose, dentro la quale possediamo un centro, dentro la quale ci guardano gli occhi del simile, occhi che ci confermano, occhi con cui abbiamo negoziato la reciproca posizione.

Ora no, ora l’estraneità di quello che ci abbraccia

di quello che ci tocca

ci colpisce

e colpendoci genera d’impulso una reazione

una risposta.

Spesso, d’acchito, è un rifiuto,

un divincolarsi, un moto di difesa.

Un tendersi in opposizione

come per non cadere

in presenza d’un vento forte.

Spesso c’è bisogno che passi del tempo.

Spesso un’altra risposta avviene

quando la compresenza

è divenuta separazione.

Questo mi genera l’associazione con quanto viene detto

sulla etimologia della parola simbolo

il coccio spezzato in due

a rammentarsi l’ospitalità data e ricevuta.

(Tra Pacha e noi è successo più o meno così)

Mi fa pensare ad un’unità spezzata:

la compresenza, la condivisione

la pienezza dell’esperienza insieme

l’abbraccio

si fa separazione.

Ti sarò riconoscente

ti riconoscerò

ti conoscerò nuovamente.

Mi conoscerò nuovamente

come parte di qualcosa di più grande.

Raccontandoti.

Raccontandoci tenterò di ricostruire quell’unità perduta

quella pienezza.

Come dicevamo, il pericolo acuisce il senso di simbiosi provato in un’esperienza.

Ricordo certi attraversamenti di barrios malfamati e pericolosissimi

dove anche fisicamente io e Gigi eravamo attaccati a Pacha,

come bambini alla mamma

come naufraghi alla zattera.

Testes, testimone, ha a che fare con superstes, superstite, ma anche chi super sta, chi è superpresente. Chi fa un’esperienza di presenza più forte. Presenza con qualcuno. Compresenza forte. Che poi si fa distacco, separazione.

Pensare il testimone come qualcuno che parla

non solo in vece sua, ma anche (e soprattutto)

in luogo di qualcuno che non c’è,

proprio perché non c’è.

Attraverso la sua parola

tenta di ricostruire la presenza di quello

di colmare quel vuoto

di ripristinare quella interezza

quindi di dotarla di senso

che è un altro modo per connetterla a sé

per farla sopravvivere nel futuro.

Un vuoto, testimone di un pieno:

l’impronta che l’altro ha lasciato in noi.

La testimonianza come un’impronta.

Impronta che tramite il suo vuoto di ora

la sua forma vuota di ora

parla di un pieno, che è passato di lì.

Di un passaggio. Di un passato

che quanto più è stato pieno,

tanto maggiore sarà ora il vuoto.

(Nei casi estremi, certe visioni segnano al punto da bloccare lì, in quel momento -pietrificati per avere visto la medusa- marchiati con un senso così forte, da impedire ogni altro senso, da investire il testimone di una funzione significante sovrana e totalizzante.

Il testimone come presenza del passato nel presente.

Non significa il passato.

È il passato.

Qualcosa che stona nel presente.

Un anacronismo, direbbe Didi-Huberman.

Come il simbolo, il testimone

vive un doppio regime di tempo.

Un tempo che scorre e uno bloccato.

Una metà spezzata appartiene al presente.

L’altra invece ad un tempo che non scorre.

In quest’eternità il testimone

potrebbe parlarci anche dal futuro.

Il testimone è un buco nero,

un inciampo, un vuoto, un’eccezione

che interrompe il continuum spaziale o temporale.

Forse la compresenza produce un’esperienza

che sentiamo così piena, così intera

proprio perché è compresenza

con il dissimile, con l’estraneo,

con la metà che ci manca,

con quello abbiamo perduto

con quello che abbiamo rimosso

e che spesso pensiamo

come brutto, pauroso, oscuro

ma che fa parte di noi e noi di lui.

Come se soltanto nell’unione con l’opposto riconquistassimo un’interezza.

Che poi si spezza nuovamente.

Si spezza non senza avere lasciato qualcosa di sé dentro di noi.

Qualcosa che ci rimane dentro.

Qualcosa che non entra a patti con le normalizzazioni e le razionalizzazioni

qualcosa di insolubile

qualcosa non facile da sciogliere, da digerire, quindi espellere.

Anche perché portatore/generatore di opposti inconciliabili, insintetizzabili.

Non la morte ma morte che si presenta come viva.

Forse è proprio la presenza di una contraddizione insanabile,

oppure di qualcosa che va oltre il dicibile,

che ci fa pensare talvolta al testimone

come a qualcuno che assiste allo svelamento di un segreto,

di un’apparizione che squarcia e contraddice quello che sanno tutti.

Il testimone come qualcuno che viene iniziato ad un segreto,

(qualcosa sentito come al di là della morale comune)

condannato paradossalmente a tentare di rendere dicibile ciò che non lo è

a tentare di sciogliere il masso attraverso le parole.

Pacha non era solo quella che ci salvava

o che ci raccontava la propria saggezza da strada

davanti a una birra (no, non una birra, venti birre perché era in tutto eccessiva)

era pure l’incarnazione di tutte le brutture

che la vita di strada genera.

In lei erano presenti pure i miasmi della discarica

e gli avvoltoi a cui lei si opponeva.

In lei e nel suo mondo

c’erano aspetti impossibili da capire tramite empatia.

Era presente il totalmente altro.

L’incapibile.

Fuori dalle definizioni. Fuori dallo spazio illuminato. Dal familiare.

Qualcosa di informe. Il caos.

C’è la forma, che altro non è che separazione dal caos,

che delinea uno spazio di conoscenza.

Qualcosa su cui è possibile dire.

Fuori da questa, è notte, è buio.

Quando Pacha ci portava nella discarica, di cui faceva parte, si entrava in questo informe.

Nel luogo in cui tutte le cose tornano ad essere caos.

Tornano a non essere.

Lei finisce là

in questo vuoto

dove forse, proprio perché le cose tornano a non essere,

si apre lo spazio della possibilità.

Imbrigliare la testimonianza di questo mondo in una narrazione conchiusa, sarebbe stato come tentare di restituire l’esperienza dell’incontro ravvicinato con un leopardo in piena savana, mostrando il leopardo in gabbia allo zoo.

Nella gabbia dello zoo il leopardo diviene più simile

ad un grande gatto che a se stesso libero.

Perciò, nell’organizzare il rito teatrale, abbiamo tentato di abbattere tutte le gabbie possibili… quelle spaziali, quelle funzionali, quelle temporali, e anche quelle drammaturgiche.

L’ipotesi era cercare di mettere i due mondi a contatto diretto, con il testimone in veste di medium, di guida, di interprete non di un testo ma direttamente del mondo.

Cercare di dare la maggior fisicità possibile attraverso spazi da attraversare, ferro arrugginito da toccare, cerchi di corpi, foto, mappe, birra…

Oltrepassare le cornici abituali, creare una zona di frontiera, liminale, di compresenza tra le categorie più diverse.

Anche perché la realtà di quel mondo non è fatta di confini, di definizioni, di forme chiuse, infatti dalla casa i bambini fuggono,

si salvano fondendo i corpi con i corpi,

vivono invisibili ai bordi dell’ordine, ai bordi della luce

sono la quintessenza delle creature liminari sfuggite al controllo del prima (la famiglia, la casa, la scuola)

e a quello del dopo (il lavoro, un’altra famiglia…)

in una terra di nessuno, incarnano l’indefinito: né bambini né adulti, cuccioli randagi a volte feroci, fantasmi che emergono dall’ombra, dai banchi del mercato di notte, dalle vie laterali

e così Pacha, il leopardo, che usa le parole

come fossero zampate o leccate o mammelle o pelliccia

o che più spesso non parla proprio

ma c’è, nutre, scalda, gioca, costruisce…

Le parole quelle che spiegano, che normalizzano, che distanziano,

sono le nostre, siamo noi a frapporle in quelle situazioni.

Pacha le situazioni non le lavora da fuori

lei lavora il dentro delle cose.

Lei è dentro le cose

al centro del cerchio

non fuori a guardarlo

non davanti

come noi davanti a un quadro

come noi davanti al mondo

nel punto prospettico

nella posizione sovrana

a cogitare

a contemplare

a studiare

a controllare

chi entra

chi arriva

per non venire sorpresi

dalla vita

alle spalle.

Pacha è al centro del cerchio

il mondo non le è davanti

il mondo le è attorno

il tempo non le è davanti

il tempo le è attorno

può arrivarle da dietro

può sorprenderla

lei non controlla tutto

dalla torre di controllo

separata dalle cose

lei è corpo in mezzo ai corpi

lei è mondo parte del mondo.

Questo saggio è all'interno del libro di  Pietro Floridia: Teatri in viaggio. Lungo la rotta dei migranti. Ediziuoni Nuova S1.

Per richiedere il libro si può scrivere a Pietro Floridia mail: pietro@itcteatro.it