Il Nicaragua non lascia mai indifferenti. Chi l’ha vissuto durante gli anni tumultuosi della Rivoluzione Sandinista o subito dopo, prima comunque che l’avvento dell’uragano neoliberista facesse a pezzi, quasi completamente, “el pueblo dueño de su historia, arquitecto de su liberación”1, non può non sobbalzare e fermarsi avidamente ad ascoltare quando, purtroppo sempre più raramente, i mezzi d’informazione o qualche organizzazione della società civile  sollevano un lembo del telo che da anni ricopre le vicende di questo paese.
È come se all’improvviso qualcosa che è parte di noi, ma che abbiamo ben nascosto, a volte per celare un dolore antico, un qualcosa di non risolto, venisse velocemente a chiederci di saldare un conto in sospeso, a dirci che non tutto è finito, che la gente continua a sorridere nonostante le mille disgrazie.

Per chi invece il Nicaragua non l’ha mai conosciuto o ci è arrivato in piena tempesta neoliberista, il “paisito”, come spesso lo amano chiamare i nicaraguensi, resta come qualcosa di indecifrabile, come perso nel tempo o nei ricordi che altri ci hanno trasmesso e che però richiama ancora l’attenzione su di sè, fa capolino, un qualcosa a cui ognuno può dare un nome diverso e che continua ostinatamente a non voler scomparire.

Il Nicaragua è ovviamente cambiato, la sua gente è cambiata, come siamo cambiati noi, come è cambiato il mondo.
Il cielo che la maggior parte dei nicaraguensi ha quasi toccato con un dito, nonostante il turbinio di contraddizioni, errori, entusiasmi e sogni ad occhi aperti, li ha respinti verso la solida ed a volte dura terra ed il botto è stato di quelli che lasciano il segno.

Il mondo rurale è stato gradualmente fagocitato dagli assatanati geofaghi delle vecchie oligarchie nazionali, ma anche dai nuovi affaristi rampanti, molto spesso nati nel seno degli ideali pseudo rivoluzionari e dal capitale multinazionale in cerca di nuovi territori di conquista.
Le masse di campesinos rimasti senza credito, senza terra, senza speranza hanno dovuto scegliere tra trasformarsi in manodopera errante, bussando alle porte dell’abisso delle monoculture (senza sapere che ben presto ne sarebbe usciti vinti ed ammalati, come nel caso dei bananeros e cañeros2) od emigrare verso le città in cerca di un lavoro che nessun governo ha avuto tra le sue priorità. Quando invece lo si trova, quasi sempre si trasforma in umiliazione, testa bassa ed occhi fissi su mani che freneticamente maneggiano la tela, in qualche maquila asiatica o magari ai semafori di una capitale rigonfia di anime, molto spesso alla deriva.

Un’emigrazione interna che continua, cammina, si trascina stancamente fino a raggiungere la foresta tropicale, che si confonde con la frontiera del Costa Rica. Buca il fragile confine e si sparge per tutto il vicino paese del sud. Orde di nuovi barbari, i nicaraguensi, non per fame di conquista, ma per poter dare un taglio netto al bruciore di stomaco che viene quando si mangia una sola volta al giorno. Per poter eliminare quel bruciore anche alla propria famiglia, ai propri figli rimasti con qualche parente. Orde che si spostano anche verso nord, il grande miraggio, il Bengodi eterno che ti affama, ti attira e poi ti respinge quando vuoi presentargli il conto.

La città diventa quindi un microcosmo che accoglie mille anime diverse, all’interno del quale si creano altri microcosmi e poi altri ancora, che vengono replicati anche dall’immaginario collettivo. Difficile distinguere tra realtà e finzione, tra racconto ed incubo, tra speranza e voglia che tutto finisca, presto. Mondi separati, quelli dei quartieri-bene che vivono in una città nella città, in una bolla dorata da cui si esce solo per annusare la vita che continua a scorrere incurante e quelli della vita di tutti i giorni, affannata, dolorosa, persa in una sua dimensione poco decifrabile, ma allo stesso tempo ricca e potenzialmente fucina di un futuro nuovo.

Non sarebbe la prima volta che si sente dire che il Nicaragua non è povero, ma impoverito. Sottile differenza tra termini che apre una voragine di senso e contenuto.

Durante un’attività che si è svolta recentemente in El Salvador, Aurora Donoso, integrante di Acción Ecológica dell’Ecuador, ha introdotto il concetto di “Debito Ecosociale”, che non può lasciarci indifferenti quando parliamo di Nicaragua o di qualsiasi altro paese del sud del mondo.

“Si tratta essenzialmente della responsabilità del debito accumulato, principalmente dai paesi del Nord, durante una lunga ed antica storia di saccheggio delle nostre risorse naturali. Ed è una storia che continua ancora oggi. Parliamo dello sfruttamento, dell’inquinamento, dell’utilizzo di manodopera schiavizzata e della responsabilità che questi paesi hanno sull’impatto di tali attività a livello locale, mettendo in pericolo il pianeta nel suo insieme”, ha detto Donoso.  

Non è un segreto per nessuno che i paesi come il Nicaragua hanno vissuto una tragica relazione con il Nord, un passato marcato a fuoco dalle conquiste ed i saccheggi delle terre e delle risorse, dall’eliminazione fisica, culturale, sociale e linguistica, con una sottile e allo stesso tempo drammatica strategia d’assimilazione delle popolazioni, per poi lasciarle sperdute in un oblio, senza strumenti per poter crescere ed avere un futuro dignitoso. Freddo e asciutto calcolo matematico che ha concentrato la ricchezza originaria, l’ha esportata tra le opulente strade occidentali e paradossalmente, ha poi presentato il conto che ricadrà, sempre e comunque, sulle spalle delle solite persone, che sono maggioranza.
L’ignoranza e la sottomissione sono state le armi più drammatiche ed effettive per mantenere il controllo dell’intero apparato economico e sociale da parte delle elíte nazionali e delle mostruose multinazionali protette dai governi del nord. Ogni tentativo di cambiamento è stato represso con il ferro e il fuoco, basta leggere la storia, quella vera e non quella che viene raccontata sui banchi di scuola.

Il Debito Estero è stato l’elemento vincolante e predominante per mantenere le popolazioni legate a questa dinamica perversa ed umiliante. Senza investimenti in capitale umano, questi paesi, le sue popolazioni, o per lo meno più dell’80 per cento di esse, sono destinate a peregrinare, accontentandosi delle briciole di paesi ricchi di risorse e potenzialità. Ricreando microcosmi di dolore e sofferenza e convincendoli di essere inutili, senza speranza, senza possibilità, in uno stato di commiserazione e colpevolezza.

“Chi deve a chi?” è la domanda che fa Donoso nel suo intervento. Chi è il vero debitore e chi il creditore? Chi ha rubato, saccheggiato, vilipeso, assassinato, sottomesso, sfruttato e umiliato?
Siamo davvero sicuri che i paesi del Sud, tra cui il Nicaragua, devono anche pagare dopo aver subito tutto ciò? Siamo sicuri che gli abitanti dei barrios marginales, dopo essere stati esclusi fin dalla nascita dall’accesso a istruzione, cultura, ad una vita dignitosa, in una spirale generazionale che si ripete all’infinito, debbano anche pagare affinché venga garantito loro un nefasto futuro?

“Ci posso essere vari linguaggi per denunciare ed esprimere il saccheggio – continua Donoso –. Quelli che realmente si sono commessi sono delitti sociali ed ambientali. La storia del saccheggio coloniale è una storia di genocidi, di brutalità, di impatto grave sull'essere umano e sulla natura, e questi delitti dovrebbero finire davanti a tribunali penali. Il termine "debito" ha inoltre una connotazione morale, di obbligatorietà, di qualcosa in sospeso e forse è come un meccanismo per arrivare alla parte dei delitti, come una transizione per arrivare a pensare a questo saccheggio ed alla ferocia dello sfruttamento delle risorse. È strategico per poter vedere l'altra faccia della medaglia del debito estero, perché la gente pensa che un debito bisogna pagarlo, ma col debito estero non è tanto semplice, perché è pieno di illegalità, illegittimità, irregolarità, corruzione, interessi vincolati. Alla fine, il debito estero è stato il meccanismo con il quale si è facilitato il saccheggio delle risorse finanziarie dei paesi ed è stata la chiave maestra per imporre il sistema neoliberista”.

Cosa c’entriamo noi in tutto questo? Perché dovrebbe interessarci il ragazzino huelepega  che scippa una ragazza al semaforo o il consumatore di crack che si distrugge steso sui cartoni o la fatalità con cui bambini, bambine, giovani ed adulti  immergono le loro mani nelle montagne d’immondizia in cerca di qualcosa da vendere?

Le dinamiche d’esclusione, di sopraffazione, di annullamento personale non sono poi così diverse. La “calle”, la strada, è la stessa e perdersi in essa non è poi così difficile.
Rispettando una visione dal Sud, senza cercare di interpretarla dal Nord, anche la storia passata non si può cancellare, ma la si può e la si deve rileggere alla luce di una realtà che ormai è stata smascherata. Il Re è nuovamente Nudo ed intorno a noi, in questo mondo globalizzato, i muri e le frontiere non possono più bastare per evitare di fare i conti con la storia, la nostra storia, la storia che è di tutti.