Il lavoro sul testo nel teatro della scuola.

Se facciamo teatro con i ragazzi, la prima cosa che ci tocca mettere in gioco sono alcune certezze e sicurezze che, anche se fanno parte di un malinteso “senso comune”, non ci aiutano o rendono il nostro intervento fuorviante.

Prima certezza: il testo è il “senso” del lavoro.
Non è vero. Nel teatro tutto è senso, il muoversi dei corpi, la scelta delle musiche, l’uso degli oggetti. E ovviamente anche le parole usate e la linea narrativa scelta, ma a pari dignità con tutto il resto.

Seconda certezza: “adesso mettiamo in scena il testo”.
Vecchio retaggio idealistico, il cuore sta nell’idea, nel “testo”, ciò che fa il teatro è utilizzare corpi, attori, elementi scenici per tradurre “l’idea” in un fatto concreto (lo spettacolo). Ma nessun attore, e tanto meno nessun ragazzo, uscirà bene da questo processo di strumentalizzazione. Certo, si metterà in scena il testo, esattamente come si accetta di fare un compito.

Terza certezza: “gli attori interpretano il testo”.
Basta intendersi su cosa significa interpretare. Un ragazzo può fare proprio, vivere in prima persona, dare la propria anima e la propria esperienza ad una scena, un tema, un personaggio. Difficile che trovi così interessante il semplice “trasformarsi” in qualcosa che è altro da sé.

Quarta certezza: “il testo fa parte della storia della letteratura”.
Non solo. Il testo fa parte in primo luogo della storia del teatro, nasce, spesso, dalla collaborazione tra drammaturgo e attori, tra drammaturgo e regista, all’interno tiene conto e considera fondanti i linguaggi delle dinamiche, dei ritmi,
gli elementi visivi e musicali, la coscienza del rapporto col pubblico. Dire il testo bene non significa fare teatro, esattamente come per stringere una mano non serve solo l’indice.

Anche nel teatro professionale il testo funziona se riesce ad essere catalizzatore di contributi vari ed eterogenei, se permette all’attore di utilizzare fino in fondo la sua creatività e di valorizzare la sua unicità, se riesce a dialogare e a fare esplodere altri linguaggi artistici di tipo non testuale.

Insomma il testo non è la risposta al problema del “senso”, è una domanda che chiede una risposta, e la chieda alle persone in carne ed ossa che lo attraversano recitando, facendo la regia, le luci, le musiche, le scene. Se così non fosse alla tremillesima versione Amleto sarebbe inguardabile, la differenza starebbe al massimo “nella bravura” degli interpreti, il teatro non riserverebbe sorprese e spiazzamenti a chi lo guarda.

Ma lavorare con i ragazzi vuol dire lavorare con un teatro che non è professionale e, mi permetto di aggiungere, non dovrebbe nemmeno aspirare a diventarlo.
Questa situazione, questa condizione, è particolare.
Non solo perché i ragazzi non sono attori e non sono professionisti, ma perché sono una comunità, unita dall’esperienza forte di vivere lo stesso processo educativo, omogenei per età, per luogo d’appartenenza.

Lavorare con un gruppo di questo tipo è un’esperienza straordinaria. Perché nel momento in cui scoprirà il teatro, se ben guidati, esprimeranno una ricchezza straordinaria di emozioni e di motivazioni nell’affrontare quel viaggio che è uno spettacolo. Saranno capaci di dare una forma di lettura assolutamente personale e irripetibile, sapranno, affrontando il testo, anche parlare di sé, delle proprie contraddizioni e dei propri sogni.

Allora possiamo, senza sminuire ma anzi dando un valore culturale attivo e straordinario al termine, dire che qualsiasi testo nel teatro della scuola, è un pre-testo. Non perché sia indifferente fare quello spettacolo o un altro, ma perché qualsiasi punto di partenza (testo classico, fiaba, racconto breve) serve ad aprire una discussione e un percorso al cui centro sta la domanda del gruppo: perché lo faccio? Cosa c’entra con me, con la mia storia, con la storia di questa classe, di questo paese, con la mia memoria? Come lo sento io? Cosa ho dire di assolutamente unico e personale su questo tema.

Allora il testo-pretesto diventa trampolino di lancio per esplorazioni, per processi culturali, per domande e interrogativi. In questo concreto processo di esplorazione si costruisce il vero testo dello spettacolo, momento di incontro tra il punto di partenza proposto o scelto dal gruppo e tutti i materiali usciti lavorando: nuovi scritti, improvvisazioni, oggetti portati, musiche scelte, tagli e aggiunte al testo originale, pezzi autobiografici inseriti, ricerche fatte.

Perché il valore più importante del lavoro teatrale fatto con i ragazzi è proprio quello di dare il via a un processo culturale attivo, in cui nessuno si troverà a fare da megafono a parole non scelte, in cui per la prima volta essere protagonisti non significherà solo “apparire”, anche quello sicuramente, ma imparare a sentire, a fare proprio, a rispettare e a trasformare.

Ecco perché la scelta di un testo o di un punto di partenza non deve rispondere a criteri astratti: “penso che sia educativamente giusto, ha un grosso valore letterario etc. età”, ma deve assomigliare di più all’atto di chi butta un sasso nello stagno e poi si ferma a guardare affascinato i cerchi che si creano nell’acqua, la quantità, la forma, l’estensione. Quei cerchi racchiudono in sé il senso vero del lavoro, la sua necessità, il suo valore culturale e educativo, non il sasso in sé.

Tutto può essere e diventare testo: l’amore per un cantante, il racconto di una giornata di vacanza, l’entusiasmo collettivo per un fumetto, i giochi preferiti.
Compito del conduttore teatrale sarà all’interno di quei temi evidenziare i sentimenti, le domande profonde, le tensioni che spesso si nascondono sotto una patina di apparente menefreghismo.

E una volta fatto questo lavorare applicando quelle semplici regole, quasi artigianali, che ogni persona dovrebbe portare nel suo bagaglio: non esiste storia se non c’è una posta in gioco, qualcosa d’importante da raggiungere e da conquistare, qualcosa che stia realmente a cuore, non esiste posta in gioco se il tentativo di conquistarla non contempla conflitti, ostacoli, prove da superare, il conflitto non può essere statico e senza sviluppo ma deve vivere di crescite, di aumenti di tensione, di finte conciliazioni, fino a raggiungere il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine.

Molto potrebbe essere fatto nel comunicare e rendere evidente l’importanza di queste strutture drammaturgiche e di racconto fondamentali (conflitto, posta in gioco, climax), questo aiuterebbe tra l’altro a entrare un po’ di più all’interno dell’officina creativa di uno scrittore, togliendo alla scrittura quell’alone romantico che sembra aggiungerle fascino e invece la stacca da noi. I grandi scrittori sono anche grandi artigiani della narrazione e della costruzione, la creatività si rafforza nel rapporto con le regole e con precisi compiti narrativi da svolgere. Auspicabile sarebbe che questi strumenti venissero con più coscienza messi a disposizione non solo dei conduttori teatrali, degli insegnanti, ma anche degli alunni stessi, perché imparare a narrare una storia è contemporaneamente imparare a narrarsi, è conquista di un’attitudine a leggere la vita e la realtà in forma dinamica e complessa.

Ma tutto questo sarebbe inutile o, ancor peggio, un ennesimo strumento didattico, una nuova materia (scrittura creativa?), se il primo sforzo, anche nell’utilizzo di tecniche e metodi adatti, non fosse rivolto a spezzare il silenzio, la nebbia di passività per cui tutte le cose passano addosso, per cui si può fare tutto senza credere in niente.

Per qualsiasi gruppo, in qualsiasi situazione, c’è sempre uno “spettacolo necessario” da fare. Esattamente come, da bambini o nell’adolescenza, c’è sempre una favola necessaria cui sempre si torna, un cantante necessario che sempre bisogna ascoltare, un manifesto che sempre deve essere appeso. Lo spettacolo necessario è quello che dà il senso all’incontro, a quei mesi passati insieme a giocare con il teatro, è lo spettacolo che per la prima volta crea un sapere collettivo e non individuale, un’esperienza del gruppo che rimarrà dentro a ognuno come viaggio intrapreso e portato termine, pietra di paragone per altri esperimenti e processi in cui, in futuro, sarà bello e importante lavorare assieme.

Allora il testo, la scelta del testo, il lavoro sul testo, lo stravolgimento o addirittura la negazione del testo di partenza, la costruzione di un nuovo testo, le domande che accompagnano tutto questo processo diventano soprattutto strumento per la costruzione di un’identità culturale e umana, un riconoscersi, un potersi guardare allo specchio e dire: “io voglio comunicare questo, perché io sono questo, adesso”.

Sembrerà irrispettoso dirlo ma avere a che fare col testo è come avere a che fare con un giocattolo. Perché un giocattolo sia amato ha bisogno anche di essere strapazzato, sbattuto, angariato, smontato, ricomposto. Quel processo che non è distruzione, ma appropriazione di qualcosa. Per cui quell’orsacchiotto con un occhio storto e un’orecchia mancante è quello che ci porteremo dietro nella vita.

Per questo è necessario il coraggio, che nasce da amore, e non da disprezzo, di essere maleducati coi testi. Come lo sono stati tutti i grandi scrittori, le cui opere spesso sono maltrattamenti di opere precedenti, di storie e di leggende. Perché la necessità del dire è relativamente indifferente agli scrupoli filologici, alla difesa rispettosa delle versioni precedenti. In quel movimento del triturare sta il rapporto col presente che, nel fare artistico, viene riconquistato, con febbre e passione. Attenti per questo ai testi troppo ordinati, a processi che rischiano più di assomigliare alla corretta esecuzione di un compito piuttosto che ad un percorso infiammato e divorante.

Sapendo anche che il lavoro su un testo messo in mano ad una comunità (e un gruppo classe, con il suo insegnante o il suo eventuale animatore o conduttore teatrale è comunque una comunità) diventa immediatamente il lavoro di un autore collettivo, formula che spesso mal s’incontra con un’idea scolastica di linearità o di coerenza.
Andranno accettati e bisognerà imparare a giocare con i salti di registro che una scrittura di questo tipo comporta: con i salti dal dialogo drammatico alle forme di narrazione, ad altre forme che possono trovare spazio; strutture di tipo diaristico, resoconti, lavori su frammenti, incisi, digressioni.

E bisognerà anche accettare che l’attenzione che mai come oggi è stata così forte verso i linguaggi non verbali possa diventare testo, saper che un testo è in grado di accogliere e di fare propri contributi di tipo visivo, di tipo cinematografico o fotografico, lavori dal vivo su stimoli sonori, registrazioni, elementi provenienti dai cosiddetti linguaggi “bassi” (moda, pubblicità, fumetto, letteratura di genere).
Questa tra l’altro è una situazione cui non si trova davanti solo l’educatore o il conduttore teatrale, ma è il nuovo terreno su cui molte delle avanguardie artistiche d’oggi si stanno confrontando. La presupposta compiutezza e linearità delle grandi opere classiche non possono essere modelli assoluti, pietre di riferimento, dettami ineludibili per il presente.
Riemerge la necessità di essere sì scrittori, ma, anche, e questo solo apparentemente entra in contraddizione, registratori, narratori, testimoni, documentaristi, inviati, manipolatori, capaci di bricolage inediti, di salti narrativi, capaci di sapere assumere all’interno della propria arte la complessità del reale, in cui i moltiplicarsi dei linguaggi chiede una nuova capacità di sintesi e di gioco, non l’ignorare in modo snobistico il problema chiudendosi nella prigione rassicurante delle forme chiuse.

Mi rendo conto che queste riflessioni possono sembrare quasi sproporzionate o aprire territori che paiono lontani dai problemi che la pratica quotidiana pone.
Non è così. E’ che una frontiera nuova, in tutte le esperienze che presuppongono azione e sperimentazione culturale si sta aprendo. E’ la frontiera che reagisce all’inscatolamento, alla burocratizzazione, all’etichettatura delle esperienze (quanti corsi, quante discipline, quante tecniche asfittiche, che proliferare di sotto-discipline, propostine tutte facilmente vendibili ad assessorati e funzionari alla ricerca del consenso), e sappiamo che anche l’attività teatrale, come ogni attività artistica, può essere facilmente inscatolata, ritualizzata, ridotta a modulo.

E’ la frontiera che vede di nuovo l’interlocutore delle esperienze non solo come pubblico, o come “allievo” da educare, ma come partner attivo, come attore culturale in senso pieno. Questa mi sembra la scommessa culturale e anche pedagogica più importante, la chiave che può fare ritrovare anche al lavoro teatrale nella scuola la sua carica dirompente e spiazzante, che può trasformare l’ora d’aria o di libertà nella prefigurazione di un altro modo di vivere, di imparare, di scambiare e rispettare differenze.

Resta però fondamentale la curiosità, la nostra capacità di muoverci assumendo l’ignoto come terreno di crescita. Ogni volta che ci rivolgiamo a un gruppo, che c’interroghiamo su un testo, dobbiamo pensare di avere a che fare con dei “selvaggi”, termine qui non usato in senso provocatorio ma in quanto indicatore di una differenza da esplorare, della diversità irriducibile che come sempre separa una generazione dall’esperienza di tutte le generazione precedenti.
Termine che non indica positività o negatività, ma traccia un sentiero di ricerca e di conoscenza.

D’altronde la storia dell’arte, sopratutto la storia dell’arte del secolo appena trascorso, dal rapporto col “selvaggio”, con la differenza, con codici estetici che era difficile anche solo immaginare a priori, ha trovato forza e capacità di rinnovarsi, di interrogarsi di nuovo.

Oggi, di nuovo, si tratta di uscire dalle Accademie, che, persa la loro forma ottocentesca, si nascondono nelle forme chiuse del sapere, nella tecnicizzazione delle discipline e delle esperienze artistiche.

Concludo questi appunti che non vogliono essere esaustivi o definitivi sulla questione con un a piccola riflessione. Tutta l’esperienza formativa, che da allievi si fa in una scuola, consiste, nel bene e nel male, nel ricevere un testo, cercando di assimilarlo e nei limiti del possibile, di tirarne fuori strumenti e indicazioni utili per sé.
Quello che si apre come orizzonte è la capacità che la scuola, i processi culturali e artistici che si svolgono al suo interno, diventino capaci di raccogliere testi, che vengono dalla vita, dalle esperienze e dalle emozioni, di chi è lì sì per imparare ma anche per indicare all’educatore il terreno mobile che non si può smettere mai di esplorare.

In questo scambio, in questo doppio livello, trovo il senso più profondo del lavoro teatrale nella scuola e del lavoro sul “testo” nel teatro della scuola

Gianluigi Gherzi.