L’attore è un autore.
Crea lo spettacolo partendo dal proprio lavoro di scena.
Lavora, quando messo in condizione,
con un pensiero straordinario e insostituibile.
L’autore pensa scrivendo. Il regista pensa vedendo.
L’attore pensa agendo.
E’ un pensiero immerso
nelle azioni fisiche che compie,
nell’energia con cui le percorre,
nelle risposte che intuitivamente
riesce a trovare agli ostacoli,
nelle modalità di relazione
che riesce a stabilire con gli altri attori.
Il pensiero dell’attore è dentro la sua biologia:
solo lui potrà fare quel gesto in quel modo.
Il pensiero dell’attore è dentro la sua storia personale,
solo lui potrà trovare quella associazione emotiva.
Un attore che improvvisa mette il regista
nella condizione di poter scoprire
una miniera che lentamente viene allo scoperto.
L’attore, guidato nella sua libertà,
é in grado di creare un testo parallelo,
fatto di parole, canti, gesti, azioni.
Normalmente di queste potenzialità
se ne fa cattivo uso. Le si ignora:
che l’attore continui ad essere
il manichino del regista,
così pratica certo teatro.
Oppure le si utilizza solo in quanto funzionali
al disegno drammaturgico e registico dello spettacolo.
E’ interessante, ma non decisivo.
Si può invece attingere a queste potenzialità
come a una delle risorse più importanti,
per la creazione o per la rilettura del testo
e per la definizione del linguaggio scenico dello spettacolo.
Questo è ciò che mi interessa.
Io, autore, in quanto scrittore e regista,
ho la necessità di incontrarmi con gli autori-attori
per trovare connessioni insospettate con certe parti del testo,
per, improvvisando, svilupparne altre,
per, giocando, cambiarne alcune cifre,
per riuscire, dialogando con le loro difficoltà e blocchi,
a evidenziare i punti deboli o solo intellettuali
del testo o del progetto registico.
Che l’attore improvvisi, dunque.
Ma anche che l’attore racconti, ricordi, giochi, scriva.
Quello che serve é che in tutto questo
non si perdano di vista le modalità specifiche
dell’agire dell’attore-autore:
c’è un raccontare e uno scrivere,
un giocare e un ricordare,
che partono dalle energie più profonde del corpo,
da un rapporto biologico con le emozioni.
Un modo di essere autore
che non prescinde mai dall’essere sulla scena,
allenato, in condizione, pronto, vigile,
disposto a lasciar sviluppare un pensiero del corpo,
un pensiero delle forze biologiche più profonde.
Gli esercizi, l’allenamento,
servono a permettere all’attore
di scoprire e di vivificare ogni volta
la sua “qualità” di autore.
Per superare un tipo di pensiero
che non vive del presente scenico
sarà necessario sviluppare
la capacità di ogni attore
di entrare in contatto profondo
con gli elementi primari:
le forze archetipiche degli elementi,
dei colori, degli eroi e dei demoni.
Sarà necessario, il più possibile,
pensare attraverso queste forze,
lasciare che il pensiero
si ricongiunga alle proprie sorgenti,
che il personaggio, le sue danze, i suoi gesti,
i suoi canti, le sue parole,
siano espressione di queste forze.
Meglio, in un processo di questo tipo,
lasciare che la memoria del testo
corrisponda alla parte terminale del lavoro.
Prima ci sarà bisogno dell’esperienza creativa
dell’attraversare temi, situazioni, emozioni
che pur facendo parte del progetto registico e drammaturgico
non sono ancora formalizzate a livello testuale.
Quando ci si troverà di fronte alla fase finale,
sarà fondamentale cercare di rinunciare
al bagaglio di “espedienti interpretativi”
che il “mestiere “ ci mette a disposizione,
per tentare semplicemente di riportare,
nelle situazioni definitivamente fissate,
l’essenza della vita e delle energie creative
sviluppate nel percorso.
Attore-autore: questo rapporto è il tema centrale
nel mio percorso di training e di ricerca con gli attori,
lavoro che spesso viene vissuto dagli attori,
come una straordinaria riscoperta di potenzialità,
di attitudini, di vocazioni che li riguardano.
Il lavoro sulle forze biologiche
è per me, in questo momento del mio percorso,
lo strumento più adatto a superare rigidità e fissazioni,
formalismo e superate distinzioni di ruolo.
Rifondare il teatro come comunità artistica
significa anche e soprattutto questo lavoro
che, nel processo creativo,
rifiuta definitivamente di distinguere
tra una parte attiva che pensa e progetta
e una materia bruta che esegue.                                                                                       Gianluigi Gherzi

 

Teatro dell’utopia e miseria del presente

Quando penso ai miei spettacoli, al pubblico che li vede, mi sento molto contento.
Penso d'avere tra le mani una grande occasione.
L’occasione di lavorare con uno straordinario “pubblico popolare”.
Il pubblico bambino. Il pubblico adolescente. Il pubblico giovane.
Aggiungo, senza paura d'uscire fuori tema:
il pubblico che incontro nei Centri Sociali Autogestiti. Il pubblico della Piazza e della Strada.
Li guardo. Si accostano al teatro come ad uno strano oggetto misterioso.
Non sono disposti a regalare niente.
Non sentono l’obbligo morale di “istruirsi” o di frequentare la “cultura alta”.
Sanno che non è prevista l’esibizione di nessun nome televisivo d'alto o medio richiamo.
Non vanno a vedere l’ascesa o la caduta di un collega.
Senza aspettative. Senza dare nulla per scontato. Chiedono molto.
Qualcosa che c’entri con la vita, possibilmente. Un’emozione. Un’energia. Una comunicazione.
Quando lo spettacolo è finito, se non sei sordo, lo sai.
Se è arrivato o no. Se ha avuto senso o no. Se ha emozionato o no. Se ha unito o diviso.
Parole banali? Non per questo pubblico.
Uno strano pubblico. Non solo un pubblico.
Perchè, se vuoi, lo puoi frequentare. Puoi discutere con loro o giocare.
Puoi rivolgere domande, sapendo che ci saranno risposte.
Pubblico che spesso ti dice: “mi piacerebbe fare con te quello che fai tu.
Giocare col teatro. Imparare. Fare uno spettacolo. Farlo vedere”.
Pubblico particolare. Non atomi sparsi e spersi nella sala,
ma una piccola comunità, unita da un’età e una condizione.
E penso: allora, mettendo insieme tutto,
una comunità, un pubblico popolare, una possibilità di relazione profonda e complessa,
forse si può entrare in un territorio ampio e nuovo,
non ancora contaminato dalla noia, dalla polvere, dai compromessi esausti.
Risento prendere forza a due parole: “senso” e “necessità”.
Parole invocate in tutte le discussioni in cui si prende atto di un teatro che zoppica.
Parole che oggi molto teatro di ricerca comincia a fare proprie.

Perchè allora parlare di “miseria del presente”?
Piagnisteo? Consolidato lamento teatrale? Narcisismo dell’auto-commiserazione?
No, constatazione rabbiosa di come il funzionamento della “macchina teatrale”,
anche in questo settore, anche a contatto con un materiale così fragile,
con un pubblico ignaro, ma proprio per questo disposto a straordinarie scoperte,
sceglie la via della conservazione dello status quo,
della quantità invece della qualità, della svogliata abitudine,
del risparmio insieme dei costi e della creatività.
I famosi “conti che non tornano mai”, la retorica dell’impresa,
la rincorsa al consenso e al gusto medio del pubblico,
portano alla produzione di spettacoli generici,
montati in tempi ristrettissimi di prove,
con un occhio prevalente da una parte alla facilità di circuitazione
dall’altra al risparmio di materiale umano e artistico,
spettacoli che nei casi migliori si propongono di “funzionare”,
nel peggiore saldano il debito col la madre-tiranno Stato.
Risultato finale è un’idea del pubblico, dei ragazzi degli insegnanti
molto più arretrata di ciò che ragazzi e insegnanti sono.
Troppi pensano di aver capito come davvero “funzionano le cose”.
La realtà è molto più misteriosa e ricca dei loro conteggi
che però alla fine un risultato l’hanno:
quello di rendere difficile o impossibile la vita di chi,
all’interno delle loro compagnie, dei loro centri di produzioni,
delle fette di mercato da loro controllate,
cerca di continuare a fare vivere quelle condizioni
che fanno del teatro per ragazzi un’occasione artistica straordinaria.
Una schiera di ex compagni di strada ingrigiti e disillusi soffoca il presente.
Il livellamento mediano-mediocre che il mercato cerca di imporre alle produzioni
fa spuntare l’altra faccia del teatro-ragazzi, quella orribile:
un “teatro di genere”, un teatro di serie c, una sottospecie teatrale,
fatta di titoli ammiccanti e di gigioneggiamenti melensi.

Peccato, perchè il teatro ragazzi italiano non se lo merita.
Perchè, nonostante tutto, il teatro-ragazzi italiano conserva,
nelle sue esperienze più felici, un altissimo tasso di artisticità.
Perchè il miglior teatro-ragazzi italiano vive di una felice anomalia:
di uno scambio continuo col mondo del teatro di ricerca,
cui dà artisti e da cui li prende, con cui costantemente dialoga.
In molti casi ormai il teatro ragazzi e il teatro di ricerca non sono due ambiti separati,
ma il teatro ragazzi è, semplicemente, uno degli ambiti possibili della ricerca.
Questa forse è la caratteristica del teatro-ragazzi italiano,
più compresa, rispettata e amata dai nostri partner europei.
Questa contaminazione ha portato e porta alla scoperta
di dimensioni poetiche molto interessanti.
Ricerche linguistiche anche estreme, senza perdere nulla in radicalità,
si “umanizzano” in rapporto a questo tipo di destinatario,
istanze pedagogiche, ludiche, educative comprendono fino in fondo
la centralità del lavoro sui linguaggi, che sono “senso” e non solo “segno”.
Da questo incontro nasce la possibilità di un nuovo teatro popolare.
Eppure mentre faticosamente, in virtù della qualità di alcune produzioni,
s’infrangono pregiudizi, si riunificano mondi e pubblici differenti, s'abbattono steccati,
il mercato del teatro-ragazzi, formalmente, riconosce il valore di questa “qualità”,
nella realtà non le dà spazio, la ritiene di difficile distribuzione,
si preoccupa dell’inquietudine che alcuni lavori possono suscitare,
soprattutto non si fa interrogare né mettere in crisi da questa.

Siamo di fronte ad una gigantesca perdita di memoria.
Perchè il teatro-ragazzi italiano nasce da un peccato originale.
Da anni in cui tutto era in discussione: la funzione stessa del teatro,
la separazione tra attore-spettatore, l’idea di gioco e quella di creatività,
la funzione della scuola e del processo educativo,
il rapporto tra teatro e cultura, e tra cultura e politica.
Siamo figli di questo, del rapporto difficile e passionale con l’animazione teatrale,
dell’invenzione di nuovi territori del teatro, di una pratica teatrale diffusissima,
che non si proponeva di creare attori per i provini,
ma aveva nell’idea di gruppo teatrale
come soggetto politico, culturale, artistico, il suo punto di forza.
Questo peccato originale ha permesso al teatro ragazzi italiano
di non cadere mai nella trappola del “genere”, di attrarre artisticità straordinarie,
di dialogare col mondo della ricerca teatrale contaminandolo a sua volta,
di incontrare esperienze analoghe nelle periferie delle città,
nelle istituzioni totali, manicomi e carceri,
di non perdere contatto con una generazione
che generosamente cercava di usare il teatro
come ponte tra lavoro su se stessi e pratica artistica, culturale e politica.

Dobbiamo ripartire da lì? Assolutamente no!
Ma dobbiamo ritornare a quella tensione, alla radicalità di quelle domande,
per essere capaci di inventarne di nuove e di trovare nuove risposte.
Siamo all’interno di una trincea fondamentale per inventare il teatro del ‘2000,
ma questa coscienza è ancora di pochi, ed è soffocata dal cinismo dei più.

Adesso è tempo di ricominciare a lavorare e a studiare.
Qualcuno l’ha già fatto, senza eccessiva pubblicità o clamore.
Per esempio attraverso la creazione “dell’Osservatorio dell’immaginario”,
che grazie al lavoro della compagnia “Stilema” e di Mafra Gagliardi
ci ha regalato un libro che già oggi è un necessario compagno di lavoro.
Ma su questi temi: dell’immaginario del bambino, dell’adolescente,
più in generale dell’immaginario che muta, c’è bisogno di fare ancora di più:
di ritrovarsi, di discutere, di essere messi in discussione.
Per poi lavorare. Per mettere in campo produzioni
che facciano i conti con i termini mutati della questione,
che sappiano addentrarsi in territori sconosciuti,
sapendo reinventare il rapporto con il destinatario, con quel pubblico “strano”.
C’è bisogno di modalità produttive nuove,
dove la giusta attenzione alla concretezza delle operazioni
non schiacci ricerca e qualità artistica del lavoro:
C’è bisogno di una politica della distribuzione
che quella qualità sappia incoraggiare e rispettare
e che prenda le distanze da chi usa la pratica dello scambio degli spettacoli
come strumento per l’acquisizione di vergognose e immorali “rendite di posizione”.
C’è bisogno che rinascano i “progetti”, che tutti, gruppi e centri
sappiano individuare linee artistiche e investire su di esse,
che le direzioni artistiche ricomincino a farsi sentire e a pesare.
Dobbiamo prendere atto dell’assoluta mancanza di un ricambio generazionale.
Tanto hanno fatto i mercanti del mediocre
che l’idea stessa di teatro per ragazzi è diventata un rospo
di difficile digestione e di scarso fascino per le giovani generazioni di teatranti.
E’ necessario che qualcuno s'assuma, insieme coi contributi, anche il rischio di produrre.
Di produrre anche chi non appartiene direttamente al proprio orticello:
gli artisti indipendenti, certo, che hanno avuto una parte importante
nella difesa dell’originalità e artisticità del teatro ragazzi italiano,
ma anche gruppi e artisti giovani, rendendosi complici,
con operazioni a rischio, della loro formazione e crescita.
Urge la nascita di un momento formativo per nuovi attori e registi,
la generazione dei quaranta-cinquantenni deve avere la forza
di passare esperienze e competenze a una nuova generazione,
senza aspettarsi altro, in futuro, che d'essere gioiosamente tradita,
in nome di una artisticità che non potrà non cercare anche altre strade.

Più di tutto oggi serve essere radicali.
Radicalità non significa estremismo.
E’ capacità di leggere la radice del problema.
Di saper fare i passi conseguenti per invertire i segni
di uno stato di cose che deprime l’artisticità,
e non fa i conti con le speranze e le domande nuove.
Radicalità oggi significa ricominciare a fare e a rischiare.
                                                                                               Gianluigi Gherzi