Gli abitanti della città fragile siamo noi

Alle origini di tutto c'è lo spettacolo Report dalla città fragile. Anzi no. Alla fine di tutto c'è lo spettacolo di Gigi Gherzi (autoreattore) e Pietro Floridria (regista). Lo spettacolo è infatti il risultato di diversi percorsi di ricerca: quello del Teatro dello spettatore in cui Gherzi e Floridia chiamano lo spettatore a collaborare alla drammaturgia; quello dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, che, da spazio abbandonato, è divenuto, grazie all'associazione Olinda, un luogo di cultura e di vita  partecipata. Ci sono le vite delle tante persone che hanno transitato per l'ospedale, da ricostruire e da venire restituite. C'è un modo altro di fare teatro, di raccontare, di organizzare la materia narrativa, frutto del percorso e delle esperienze di una vita (dal post 68 in poi).
Ma tutto questo non si vede. O meglio. Se ne vedono le tracce, gli effetti e i risultati, presentati allo spettatore in uno spettacolo che è al contempo una istallazione artistica. Ed è dal punto di vista dello spettatore che vogliamo raccontare Report dalla città fragile uno spettacolo unico nel suo genere, anche se filiazioni, ascendenze e inquadramenti nella cultura italiana, teatrale e non, sono agevolmente possibili. Ma non prioritari. Almeno non prima di restituire l'esperienza dello spettatore che costituisce il vero cuore dell'allestimento.
Gherzi fa entrare il pubblico in due diverse ondate e prima ancora di farlo accomodare nelle panche poste a forma di lettera U al centro della sala, ci spiega che da qualche tempo sia girando per la città fragile alla ricerca di storie, di persone, che intervista. Di tutte le storie ascoltate, di tutte le interviste fatte agli abitanti della città fragile ha raccolto 35 parole, per ognuna delle quali Piero Floridia ha allestito, come tessere di un mosaico, delle tavole tridimensionali, utilizzando come contenitori i cassetti di legno degli antichi classificatori, nei quali usa materiali di recupero: rami, rame, vetro, parti di vecchie bambole, opportunamente riassemblati per dare una reinterpretazione visiva delle 35 parole-immagine, un omaggio analogico all'arte, lontano dall'uniformità del digitale (impiegata come tecnologia, nelle videoproiezioni e nel registratore che Gherzi ha usato per le sue interviste),ma non come ricerca estetica. Ogni tavola costituisce l'esaltazione del lavoro manuale, preciso e certosino, che rimanda alla parola scritta che diventa parte integrante di ogni tavola: un parallelepipedo di legno riporta, trascritti a matita, l'estratto di una intervista e una citazione letteraria. Una scheda, di quelle da archivio, ospita invece i commenti del pubblico, delle repliche precedenti, che Gherzi invita a implementare lasciando nuovi commenti. Poi lascia liberi gli spettatori di esplorare le 35 tavole, allestite sulle pareti della sala, dietro le panche disposte a U che ne occupano la parte centrale. Un lato della sala, quello dal quale agirà Gherzi come narratore, ci sono dei mobili-classificatori con alcuni dei cassetti aperti, che mostrano immagini retro-proiettate, mentre altri classificatori chiusi hanno uno spioncino attraverso il quale guardare.

Mentre Gherzi accoglie il secondo gruppo di spettatori, quelli già introdotti esplorano, guardano, toccano, scrivono mentre presto il secondo gruppo di spettatori si aggiunge e si sovrappone al primo. Poi, prima di farli accomodare sulle panche, Gherzi invita tutti a prendere una scheda che ha particolarmente colpito per quel che si è letto, o si è scritto, e di poggiarle sull'impiantito sul lato libero dalle panche dove lui si appresta a iniziare il suo racconto.
Un racconto che si sviluppa su due direttrici parallele, quella del suo amico Ivano che lo invita a visitare l'ex ospedale psichiatrico di Milano (al quale si sovrappongono i ricordi di adolescente quando sua madre era stata ricoverata per malattia mentale) e quella di alcune storie degli abitanti della città fragile. In questo dipanarsi di storie Gherzi si lascia liberamente ispirare dalle schede nelle quali sono scritti i commenti degli spettatori in uno scambio tra suggestioni e memoria, tra emozioni e un modo di raccontare eccentrico, fuori dal centro della città, in una periferia fatta di parchi, panchine, e adolescenti, soli o in gruppo, alternati ai ricordi di un disagio psichico di cui è stato testimone diretto (la madre) o indiretto (le interviste) che lo spettatore capisce, senza che gli venga detto, che sono solo il sintomo dell'insofferenza all'adeguamento sociale, del ridurre la propria unicità nei binari del conosciuto e del normale. Gherzi è bravissimo a muoversi rapsodicamente tra ricordi personali e quelli altrui a lui raccontati cercando sempre di restituire il filo di un ragionamento emotivo mai normalizzante, né definitorio, che cerca sempre di raccontare l'istante, il momento apparentemente insignificante piuttosto che la scena madre. Così facendo incarna un percorso complesso di memoria individuale collettivizzata, di disagio comune nascosto e reso muto dietro le maschere della convenzione, le stesse del teatro borghese che l'attore spezza in favore di un teatro altro. Un teatro compartecipativo dove, si badi bene, i ruoli dello spettatore e del performer non vengono mai confusi ma perdendo di definizione e di confine diventano complessi come complessa è la vita.
A metà spettacolo Gherzi invita gli spettatori a tornare alle tavole e a portare sull'impiantito quella che li ha colpiti di più e poi a scrivere, sempre se vogliono, un pensiero, una traccia, un'emozione ad essa collegata sui blocchi di legno e le matite che trovano sotto le panche. Non tutti prendono le tavole, qualcuno nel portarla dalla parete all'impiantito involontariamente la scompone, distruggendola; poi Gherzi riprendere il suo racconto leggendo i commenti del pubblico, all'impronta, senza abbandonare le direttrici con cui ha esordito i ricordi della madre e l'esperienza della sua visita all'ex ospedale psichiatrico.

Un resoconto unico, significativo per ogni singolo spettatore, intimo, e che non ci sentiamo di violare oltre per questo resoconto che non può che esser incompleto.

Senza mai cercare l'eccezionalità anzi trovando la verità nelle situazioni comuni e magari banali ma sempre con onestà e una sincerità cui non siamo più abituati Report della città fragile è uno spettacolo a doppio senso di circolazione che da un lato pone lo spettatore dinanzi il racconto di un disagio psichico che non riguarda solo i matti ma tutti noi che, a seguire le classificazioni della malattia mentale usate una volta nei manicomi, nei quali per anni abbiamo segregato chi non voleva o non sapeva adeguarsi, siamo tutti un po' matti, e dall'altro fa provare allo spettatore l'emozione di partecipare a un racconto al quale contribuisce con il proprio vissuto e le proprie esperienze. Non a caso le panche mese a u permettono di guardare non solo Gherzi e il suo racconto ma anche le reazioni del pubblico, un pubblico estremamente eterogeneo composto da adolescenti e persone anziane, da giovani e da adulti, tutte seduti sulle stesse panche uniti dall'alacre determinazione con la quale sono entrati generosamente nel meccanismo interattivo-narrativo che Gherzi e Floridia hanno allestito per loro. Un racconto fatto con una calma saggia che rende ogni spettatore un risuonatore emotivo delle vite dei pensieri e delle parole degli abitati della città fragile che sono gli altri proprio come gli spettatori sono gli altri rispetto lo spettacolo e il suo farsi. Dove il demiurgo è sempre Gherzi che conduce il gioco più di quando voglia far sembrare nelle note di regia che parlano di improvvisazione all'impronta. Perchè la bellezza dello spettacolo non sta tanto nel saper ricondurre gli stimoli del pubblico a un percorso già stabilito (così come nella musica jazz non si improvvisa mai a partire dal nulla ma da tante cellule musicali che si conoscono per esperienza) quanto nel (di)mostrare l'intercambiabilità delle persone la cui unicità è sempre comune. In una società costruita sull'esaltazione del singolo e dell'individualità, Report dalla città fragile ci ricorda a tutti che quello che ci rende unici non è la nostra unicità, ma la capacità di condivisione: quella degli intervistati con Gherzi, quella dell'attore col suo pubblico e quella del pubblico con lui e, suo tramite, con loro, gli abitanti della città fragile per i quali negli spettatori, almeno per la durata dello spettacolo, brilla la fiamma della fratellanza.

Visto il 12/10/2011 a Roma (RM) Teatro: India – sala A