Nasciamo nel 2010. Abbiamo voglia, nel nostro progetto di mettere l'Incontro al centro del rito teatrale. Incontro di chi?

Di attori e spettatori, di italiani e migranti, di attori professionisti e di dilettanti assoluti, di drammaturgie “classiche” e di scritture frammentarie, di atti teatrali compiuti e di blitz teatrali nei territori della città, di recitazione e performance, di linguaggio dell'attore e altri linguaggi espressivi.

Per far cosa? Per far tutto e di più?

No, semplicemente siamo stati chiamati da un'amica, Melina Miele, a lavorare in una delle periferie più difficili di Milano, quella che si estende nella zona tra Viale Monza e Via Padova,

Zona colpita da uno stigma e da una condanna sociale altissima: “zona di selvaggi”, in cui si scontrano bande di extracomunitari e lasciano morti per terra, zona simbolo, per l'amministrazione Moratti “dell'insicurezza del cittadino” che chiede protezione, tolleranza zero e il pugno di ferro.

Gli intellettuali poi ci mettono del loro, mancano sguardi approfonditi, in compenso fioriscono libri e pamphlet che di quella zona parlano come un territorio dell'Apocalisse, fioriscono titoli come “I diavoli di Via Padova”, che promettono buone vendite e buon impatto mediatico.

Fatto sta che per me e i miei otto compagni di equipe una cosa appare subito chiara.

Il teatro, come lo conosciamo, lì non funziona. Quel territorio mette in discussione il teatro, le sue pratiche consolidate, i suoi interventi standard. Quel territorio ci chiede di ripensarci.

La parola “Incontro”, già al centro di un mio precedente intervento sul tema teatro e migrazione fatto a Bologna con il Teatro dell'Argine, diventa ancora una volta un buon punto di partenza.

Perché “incontro”, oggi, in quei territori è tutt'altro che una parola facile. Sembra una parola “buona” e invece indica un percorso difficile e impegnativo.

Chiede di rinunciare all'ipotesi di portare “cultura”, ma anche “civiltà” dall'alto. Chiede che si lavori insieme agli altri, in primo luogo gli abitanti di quella zona, italiani e migranti, per creare altro, un “altro teatro”, “un altro linguaggio”, un altra forma degli incontri e dei rapporti. Perché se incontro ci deve essere, questo può essere solo un incontro tra persone che abbandonano le loro certezze, per rimettersi in gioco, in territori che non appartengono a nessuno, ma che devono essere scoperti assieme.

Il tentativo, fin dall'inizio è di pensare a quello che unisce la condizione di italiani e migranti, evitando di sottolineare quello che divide.

Scopriamo che gli “italiani” condividono, in quella zona, molte cose con la condizione dei migranti: la precarietà, il rapporto difficile con le istituzioni, l'assenza di futuro, a volte condizioni estreme di vita e di reddito.

Soprattutto sembra, a entrambi, mancare lo “spazio”. Spazio non come “luogo fisico”, ma come territorio in cui possano realizzarsi incontri veri e radicali, in cui ricominciare a guardarsi in faccia, smontando le immagini e gli stereotipi troppo facili sull'altro.

Decidiamo di lavorare in quella zona in due modi.

Da una parte cominciamo a riunirci una sera alla settimana con un gruppo molto grande di cittadini attori. In quel gruppo discutiamo assieme, ci auto-formiamo, individuiamo gli spunti teatrali, i temi da mettere al centro del nostro intervento.

Dall'altra parte siamo coscienti che quel gruppo deve uscire e incontrare la realtà di quel territorio. Lo facciamo individuando nel territorio alcuni spazi: una cooperativa sociale (Tempo per l'Infanzia, il suo nome) che si occupa di adolescenti a rischio italiani e stranieri, una scuola popolare di italiano per migranti (Associazione Villa Pallavicini), una casa che accoglie persone in situazione di disagio estremo. (Casa della Carità):

A queste nel tempo si uniranno due centri per rifugiati politici (gestiti dalla cooperativa “Farsi Prossimo”), due scuole elementari di zona.

Si decide di portare temi, spunti drammaturgici all'interno di questi luoghi, a contatto con i suoi abitanti. Si montano piccoli e grandi eventi spettacolari all'interno di queste strutture. Nel giugno dei vari anni di attività un grande parco posto all'interno della zona accoglie, mette insieme, contamina tutte le esperienze sviluppate durante l'anno, in un grande evento finale che sempre vede la partecipazione di quasi un migliaio di cittadini.

C'è un terzo livello di azione: quello nella città, nelle vie, piazze, prescindendo dal riferimento a strutture precise. Inventiamo forme d'intervento, una biciclettata poetica attraversa il quartiere, gli attori ciclisti recitano agli abitanti della zona, ai curiosi, agli spettatori, poesie che nascono in culture non europee.

Sempre, e comunque, non ci troviamo mai sul palco. Il teatro davvero si è messo in discussione nel rapporto con quelle realtà, non siamo mai sul palco, perché non ci funziona, cerchiamo negli eventi forme drammaturgiche che prevedano l'intervento e la partecipazione attiva del pubblico, che quasi sempre è invitato a lasciare tracce di sé, doni poetici, testi scritti durante le azioni ( e lo fa).

Tutto diventa luogo di spettacolo in questo tipo di eventi: i tavolini di un bar attorno cui si riuniscono gruppi di sei spettatori per incontrare storie migranti, i grandi corridoi della “Casa della Carità” di Milano, percorsi da spettatori che fanno esperienza del luogo, della vita che dentro esso si svolge, dei suoi abitanti, i saloni dedicati alle attività ricreative dalla struttura “Tempo per l'Infanzia”.

Questo patrimonio di attività e di esperienze sta alla base del nostro incontro di quest'anno con Antigone e con la tragedia greca.

Della tragedia greca ci colpisce da subito una cosa che in teatro, normalmente, si dice e non si dice: il suo essere rito, cerimonia, incontro proposto all'intera città, per parlare di temi, problemi, che la città riconosce come importanti.

Un appello, una chiamata a tutti, perché la vita quotidiana avesse un attimo di sospensione, per potere stare insieme, nella dimensione della festa dedicata a Bacco, e in quello spazio lungo, di giorni che andavano dall'alba al tramonto, potere parlare, celebrare, mangiare, bere, ascoltare parole importanti.

Sentiamo che quel tempo ci chiama e c'interroga: da quanto tempo il teatro non riesce ad avere un'uguale forza simbolica, un richiamo così forte e preciso?

Da quanto tempo arte e vita quotidiana si sono allontanate, marcando ognuna il propri territori celibi? Da quanto tempo arte e rito si sono allontanati, arte e festa che ormai fanno fatica a convivere o lo fanno solo nella forma commerciale e depotenziata dell'entertainment.

Sentiamo il fascino di poter proporre nell'anno di attività 2012-2013, ai cittadini e alle comunità non un tema di “stringente attualità”, ma un confronto con una dimensione grande e antica e con una storia grande a antica: la storia di Antigone.

Ci affascina in Antigone il suo essere cosciente che tra la legge, che quotidianamente si vive, e la “Legge” grande, ultima, dell'etica, degli Dei, del “cuore”, dei diritti umani (/ognuno la chiami pure come vuole), delle volte c'è scontro.

Sappiamo che quella zona, su questo tema, ha molto da raccontare.

Nel gruppo che si riunisce ogni mercoledì per progettare gli interventi nelle comunità, il tema che però salta agli occhi è un altro.

E' il tema della paura, dell'impotenza, della sfiducia nei confronti dell'azione. Antigone è eroina del fare, del rischiare, del prendersi la responsabilità e il peso dell'azione, per tutti noi questo è difficile, non si sa bene come fare, con quale forza, anche il nemico sembra essere diventato più sfuggente, nascosto dietro a mille e mille maschere. Di tutta l'Antigone il centro viene preso dalla discussione tra Antigone e Ismene, sul coraggio e la paura, la necessità di agire e il senso d'impotenza.

Accettiamo questo punto di vista e cominciamo a costruire su questi temi dei “Regali” ad Antigone, regali che prendono forma di piccoli monologhi teatrali, video, azioni performative, poesie, assemblaggi di materiali, piccole opere di pittura e di scultura.

Iniziamo gli interventi nelle comunità normalmente con una cena, con uno spazio di festa e d'incontro condiviso, cui noi ci presentiamo con i nostri “regali” teatrali e non.

Siamo un po' preoccupati, all'inizio. Riuscirà una storia antica come Antigone, una dimensione lontana nel tempo quale è quella della Tragedia Greca, a interessare, coinvolgere, rendere partecipi persone che nove su dieci non hanno mai neanche sentito nominare Antigone?

La risposta ci stupisce: Antigone diventa da subito sorella e compagna di percorso di quelle persone. La sua storia viene compresa, la sua domanda sul potere e sulla legge rimanda tante altre domande, presenti, contemporanee, scavate nella vita quotidiana delle persone.

Nel centro rifugiati a un certo punto parte la costruzione di una grande statua di Antigone, sentiamo il bisogno, concretamente, di averla con noi in ogni azione. Nasce un'Antigone, ma, sorpresa, Antigone è un Antigone nera, coi capelli rasta. Una volta, non visto, osservo un ragazzo del Senegal fermo da dieci minuti davanti alla statua di Antigone. Le sta raccontando delle cose, in certi momenti sembra che preghi.

Incertezza, disillusione, dubbio sull'agire o meno non sono i temi che quelle comunità colgono come prioritari.

I rifugiati politici mettono immediatamente l'attenzione sul rapporto tra Antigone e Creonte, il tiranno della città. Davvero per loro quella legge tirannica, arbitraria, che si scontra con la leggi più profonde del cuore e del rimanere umani, davvero loro quella legge la conoscono e l'hanno sperimentata sulla propria pelle.

Lavorando coi ragazzini italiani e stranieri “a rischio” scopriamo Antigone come una tragedia che racconta di ragazzini (Antigone ed Emone) divorati e massacrati dalla legge degli adulti, di chi neanche ti riconosce come essere pensante e senziente, ma che si rivolge a te alternando sempre paternalismo untuoso e minaccia autoritaria.

Con gli ospiti della Casa della Carità di Milano cerchiamo di scoprire insieme la parole di un'altra legge e un'altra visione e del mondo, tutto l'intervento sembra dedicato alla figura di Tiresia, povero e negletto rappresentante in terra di quella legge degli Dei caduta in disgrazia, ignorata e vilipesa dai tiranni di ieri e di oggi.

Più spiazzante ancora il rapporto coi bambini: della storia di Antigone: vogliono sapere tutto, compreso il finale. In tanti cominciano a disegnare Antigone impiccata nella caverna. Noi terrorizzati: qui stiamo facendo danno! Invece no, arrivati a quel punto i bambini cominciano a inventarsi strategie di sopravvivenza, regalano ad Antigone di tutto: profumi, perché dentro una grotta un profumo serve, libri, storie, immagini dei loro paesi di provenienza (un bambino del Perù le regala un condor e una piramide Inca). Poi immaginano Antigone trasformata in un grande albero. Costruiamo un grande albero di stoffa, lungo venti metri e istoriato dall'inizio alla fine da disegni, frasi, oggetti portati dai bambini.

Antigone è viva, quella voce non si perde, è alimento per il futuro, da coraggio nelle pratiche, questo ce l'insegnano i bambini, spazzando via le ultime tracce di rassegnazione e di psicologismo nel nostro rapporto con la storia di Antigone.

In ogni luogo nasce un evento, all'interno di quelle strutture, sono centinaia e centinaia le persone che ogni volta partecipano.

Adesso si tratta di fare sintesi e che la sintesi porti a nuove aperture. Un gruppo di quaranta persone, che comprende sia il gruppo “fisso”, che dall'inizio dell'anno si trova ogni mercoledì, sia le persone conosciute nel lavoro con le comunità che a quel gruppo si aggregano, prepara un atto teatrale collettivo che mette in scena l'intero arco della storia di Antigone, saturandola con i segni, le storie, i punti di vista, raccolti nel lavoro con le Comunità.

Adesso c'è da creare l'evento finale, c'è da fare il conto con il tempo della tragedia greca, con il tempo della vita che ci piacerebbe incontrasse il tempo dell'arte.

Chiamiamo l'evento finale: “La festa di Antigone. Da mezzogiorno a mezzanotte”: Festa sì, come era festa la dimensione in cui la tragedia greca si presentava al pubblico. Dodici ore d'incontro con il pubblico. Provare a stare, agire, fare cose insieme. Questa la scommessa.

Cosa vuol dire un tempo di dodici ore? Rinunciamo da subito all'idea di uno spettacolo di lunghezza spropositata.

Decidiamo che quelle dodici ore devono servire a mettere insieme quello che normalmente é diviso: tempo della festa, della discussione, delle azioni performative, della riflessione, del cibo.

L'evento vede quindi al suo interno sì lo spettacolo collettivo, ma anche tanti altri livelli. Di azione e di rapporto teatrale.

La dimensione performativa: il parco che circonda il luogo in cui si svolge l'evento si riempie di sedici azioni performative: guide portano i gruppi a scoprire e collegare questi frammenti uno con l'altro.

La partecipazione attiva: il pubblico, alla fine del percorso performativo é chiamato, attraverso laboratori di arte partecipata, a creare parole e poesie per Antigone, lascia traccia di quell'attività recitando i propri testi in un set video allestito per l'occasione.

Il tempo della riflessione: Gerardo Guccini ci parla dell'attualità della tragedia greca e di Antigone, inserita nel proprio tempo storico, di Antigone come urlo contro quella legge tirannica che impedisce alla polis di essere tale. Dario Borso l'affronta da filosofo, se è c'è idealismo nella storia di Antigone, quell'idealismo e quell'astrazione appartiene tutta al potere.

-Il confronto politico. Due schiere di persone, gli uni di fronte agli altri. Da una parte il pubblico, dall'altra i rifugiati politici. In mezzo un corridoio. Un tentativo di inventare il rito di una nuova forma di assemblea, senza relazioni introduttive, interventi, conclusioni. Solo storie, frammenti di vita, riflessioni che i rifugiati portano all'interno di quel luogo dell'incontro, chiedendo al teatro e alla città di farsene carico.

Il momento del cibo e della condivisione: un pranzo e dedicato ad Antigone, si mangia accompagnati da regali fatti ad Antigone e ai commensali: disegni, foglietti, poesie, piccole azioni teatrali.

Intanto Antonio Rezza ci da la possibilità di proiettare un suo video su Via Padova, in cui fa a pezzi il buon senso comune, sia quello di tipo razzista e incarognito, sia quello strapieno di “politically correct”. Proiettiamo e ringraziamo.

Per me e per tutte l'equipe di Teatro degli Incontri, composta , per l'evento finale, da Silvia Baldini, Giuseppe Buonofiglio, Antonella Piccolo, l'attività di Teatro degli Incontri è stata decisiva per mettere a fuoco, all'interno di un grande lavoro collettivo, domande e istanze che sarebbero rimaste senza risposta.

In gioco è quello che, nello stesso tempo, di più umano e di più artistico, portiamo dentro. In gioco la nostra posizione di cittadini, in questo momento storico così difficile, in gioco il nostro rapporto coi territori della cosiddetta “marginalità”, in gioco il nostro rapporto col teatro, la necessità di interrogarlo ogni volta, perché quello che c'è e che conosciamo non può essere, in termini teatrali, niente di più di un “prologo”, un punto di partenza da cui di dipartono i percorsi, le sfide, le scommesse, le invenzioni, le cadute, di questi anni che ci aspettano.

 

Gigi Gherzi

 

Per maggiori info su Teatro degli Incontri: www.gigigherzi.org